Antefatto: un post di Luca Bianchini su Facebook del 24 marzo 2017.

Luca Bianchini: Così Alfred Einstein definisce Pergolesi: “musicista negroide[,] napoletano[,] zoppo e malaticcio.” Lo scrive nella biografia su Mozart[.] Questo è uno dei vangeli mozartiani, testo della musicologia ufficiale, che tanto piace alle riviste di musica classica. Einstein che ha curato l’edizione delle opere di Mozart dice così perché segue il cosiddetto procedimento scientifico […]”

Carlo Vitali ha letto il post Pergolesi il negroide: un’occasione per non parlare del nulla! di Raimondo Di Sangro (che si rifà alle affermazioni di Luca Bianchini) e replica:

Il signor RdS, autonominatosi giudice e analista delle motivazioni umane, si produce in un saggio di psicologia spicciola ad uso delle portinaie parlando di “vecchie comari”, “ingigantire il proprio ego”, “vanità” e “invidia per il successo altrui” a carico di persone delle quali sembra ignorare tutto e che ignorano tutto di lui. Di questa parte del suo intervento non intendo occuparmi né ora né mai, salvo che per affermare di non escludere, almeno in via ipotetica, la buona fede dei complottisti come B&T. Altrettanto rispetto esigo per le posizioni dei loro oppositori, dei quali io sono uno. Anche la polemica ha bisogno di contenersi entro limiti etici evitando come la peste gli argumenta ad hominem. Se a questi mi fossi talora lasciato trascinare nel calore del dibattito, ne domando scusa; altri, e fra questi il signor RdS, sono invitati ad un analogo esame di coscienza.

Quanto alle sue premesse gnoseologiche, basate sullo scetticismo verso le conclusioni “certe” e invocanti la ricerca di un linguaggio comune, come non essere d’accordo? Con la riserva che se forse non esistono Verità universali (salvo quelle rivelate a chi partecipa di una determinata Fede), esistono le verità “locali” e le menzogne flagranti, entrambe suscettibili di prova e di falsificazione in senso popperiano.

In questa arena a me più familiare rispondo alle sue argomentazioni sulla base di dati verificabili da chiunque. Più o meno in ordine di apparizione nel suo testo:

feci la conoscenza di alcune righe che il musicologo Alfred Einstein, fratello del famoso fisico…

Conoscenza imperfetta delle persone: Alfred non era fratello, bensì cugino di Albert.

 … aveva dedicato al compositore jesino nel suo libro “Mozart: His Character, His Work” tradotto da Arthur Mendel e Nathan Broder, Oxford University Press 1945.

Quella newyorkese è sì la prima edizione, ma l’originale tedesco – che Einstein aveva steso nella propria lingua-madre durante gli ultimi anni di guerra – apparve nel 1947 a Stoccolma (Bermann-Fischer) col titolo Mozart: Sein Charakter, sein Werk. Anche a questa occorreva estendere la comparazione delle fonti, come più sotto si vedrà.

Per prima cosa, leggendo quelle poche righe, come è buona abitudine ho pensato di controllare le fonti e in effetti ho trovato l’edizione originale: Quindi è possibile leggere “sickly, crippled Negroid musician”. Già solo con queste poche notizie è possibile notare alcune incongruenze, in primis nella versione inglese la parola Negroid è in maiuscolo mentre nella traduzione italiana diventa una parola in minuscolo.

Buona abitudine da filologo, ma argomento inconcludente. L’uso di maiuscola/minuscola risponde all’uso accettato delle rispettive lingue, per cui lei ed io siamo “Italian-speaking people”, mentre nel nostra idioma “parlamo (in) italiano”. E infatti la versione originale tedesca porta: “ein kränklicher, lahmer, negroider Musiker”. Di nuovo con l’iniziale minuscola perché è un aggettivo, mentre il sostantivo Musiker l’ha maiuscola. Che conclusione si può trarre da questa alternanza? Nessuna, salvo quella banale che ogni lingua ha le sue regole e la loro osservanza non produce alcun giudizio di valore, né tantomeno una “incongruenza”. Semmai, volendo fare della filologia (metodo che lei connota spregiativamente come “disamine parola-per-parola”), occorreva rilevare un’incongruenza questa sì reale: in inglese e tedesco si parla rispettivamente di “Negroid musician in Naples” e “negroider Musiker in Neapel”, espressione che l’edizione italiana traduce male con “musicista negroide di Napoli”, e che il Bianchini — solito pasticcione — altera vieppiù a proprio uso e consumo in “musicista negroide napoletano”.

Che differenza fa? In termini tomistici la distinzione fra sostanza e accidente; nel discorso biologico quella fra genotipo e fenotipo. La conosce lei? In parole povere: non un musicista napoletano negroide (con la sotterranea implicazione razzista che a Napoli vivrebbero molti non-ariani), ma un musicista zoppo, malaticcio e di aspetto negroide attivo a Napoli.

Il che non è contestabile alla luce dell’unico ritratto autentico che possediamo di Pergolesi: una caricatura di Pier Leon Ghezzi datata 1735 che ci mostra il compositore con gli stessi tratti somatici (labbra protruse, naso camuso, capigliatura crespa, una gamba più corta dell’altra) sommariamente sintetizzati da Einstein. Quanto a “malaticcio”, la sua morte per tisi polmonare a 26 anni parla da sé.

il termine Negroide viene usato da Alfred Einstein per descrivere un musicista nato a Jesi che, come è noto a tutti, non si trova al di sotto del deserto del Sahara ma si trova nelle Marche.

Non lo ignoravano nemmeno i primi musicografi dell’Ottocento, e a maggior ragione non lo ignorava Einstein, che nei suoi scritti fa ricorso alla documentata biografia del Radiciotti (1910). Tornando alla distinzione fra genotipo (tipo genetico) e fenotipo (tipo apparente), ricordo a me stesso come fino a tempi recenti il termine “mongoloide” fosse di uso corrente in medicina per denotare gli affetti da trisomia 21, alias sindrome di Down. Ciò implicava che nelle loro vene scorresse “sangue” (rectius: DNA) asiatico? Niente affatto. Esistono sindromi morbose che possano indurre in chi ne soffre un “fenotipo negroide”? Domandiamone i medici. O forse Pergolesi era davvero portatore di DNA africano, evenienza affatto rara in Italia? Chiediamo allora ai paleopatologi, ammesso che sia possibile identificarne con certezza i resti mortali, di sottoporli alle loro raffinate indagini strumentali. Per un musicologo farebbe differenza? Secondo me nessuna.

L’altro dato da prendere in considerazione è la data di pubblicazione 1945.

Nel luglio 1950 il manifesto antirazzista dell’UNESCO (The Race Question, pubblicato a Parigi) affermava all’art. 7: “Now what has the scientist to say about the groups of mankind which may be recognised at the present time? Human races can be and have been differently classified by different anthropologists, but at the present time most anthropologists agree on classifying the greater part of the present-day mankind into three major divisions as follows: (a) the Mongoloid division; (b) the Negroid division; and (c) the Caucasoid division”. Dunque non occorre tirare in ballo l’eugenetica positivista di Lombroso & Co., e nemmeno i padri fondatori dell’antropologia nel XVIII secolo, fra cui nomi di grandi illuministi come Linneo e Kant. Pubblicando nel 1945, Einstein faceva uso di una classica tripartizione che ancora nel 1950 era considerata scientifica e mainstream dagli stessi benemeriti contestatori del razzismo “scientifico” nazista. Filosofia – o meglio pseudoscienza – con la quale Alfred Einstein, in quanto ebreo tedesco discriminato e costretto all’emigrazione, aveva ben poche ragioni per simpatizzare.

Dunque l’uso della parola Negroide, nel contesto musicologico, non è così neutro come si sarebbe portati a credere, piuttosto è sintomatico di un’epoca e dunque mi riservo di non scagionare del tutto Alfred Einstein. […] La tesi quindi che Einstein fosse “razzista” (molto probabilmente inconsapevole e non inteso in senso moderno) non sarebbe da scartare del tutto. E sarebbe ancora più grave se qualcuno volesse impedire anche solo di formulare un’ipotesi del genere.

Invece io, con buona pace del signor RdS, mi permetto di scartarla; così come scarto tutte le interpretazioni psicologistiche di natura autoreferenziale e quindi non falsificabile: ad esempio la “resistenza all’analisi” della teoria freudiana, la “misoginia interiorizzata” delle femministe 2.0 et similia. Se volessi anch’io esercitarmi nell’interpretazione selvaggia, ne contrapporrei una opposta: nella mente di Einstein, primo musicologo a curare un’edizione critica dello Stabat Mater sul tormentato manoscritto autografo di Montecassino, la constatazione delle fragilità fisiche da cui era affetto Pergolesi (“zoppo”, “malaticcio”) potrebbe anche comportare una certa ammirazione per la sua virtus eroica nel superarle. Ma, come detto in premessa, lascio simili elucubrazioni a chi se ne diletta per mancanza di argomenti più concreti e/o per disponibilità di tempo da sprecare.

Eccole risposto, egregio signore, nel metodo e nel merito; dato e non concesso che fra i due piani esista l’impermeabilità che lei sembra credere. Un’ultima perla del suo pensiero:

se per ogni idea complottara bisogna intervenire nel merito per evitare che si diffonda, si perderebbe talmente tanto tempo che non ci sarebbe più spazio per la ricerca seria.

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Applicherebbe lei lo stesso canone, tanto per fare un esempio, alla cosiddetta “menzogna di Auschwitz”? Oppure auspica che la “ricerca seria” se ne stia ben rinchiusa nella sua torre d’avorio senza preoccuparsi di ciò che alcuni dilettanti – in buona o mala fede poco importa – riescono a far credere al vasto pubblico privo di strumenti per difendersi? Questa idea di un’Accademia esente da responsabilità sociali ha condotto e conduce alle peggiori aberrazioni; me ne appello al celebre cugino del nostro musicologo, firmatario di appelli contro le sperimentazioni nucleari fin da prima di Hiroshima.

Appendice: biografia sulla home page della Fondazione Pergolesi Spontini

Ma intanto grandi avvenimenti sconvolgevano il regno di Napoli: il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, dopo una rapidissima guerra, faceva il suo ingresso a Napoli e il 16 dello stesso mese vi veniva incoronato re; gli Austriaci furono costretti a indietreggiare in Italia meridionale e in Sicilia. Buona parte della nobiltà napoletana e in particolare quella più legata agli Asburgo, si ritirò nel campo neutro di Roma, attendendo l’esito conclusivo della guerra. Tra i nobili più restii ad accettare la nuova situazione politica, era il principe di Stigliano, al cui servizio lavorava il Pergolesi, insieme con altri titolari che avevano concesso la loro protezione al musicista, come il duca Caracciolo d’Avellino (che si rifugiò addirittura a Vienna) e il Duca Marzio IV Maddaloni Carafa. Quest’ultimo e sua moglie, Anna Colonna, invitarono Pergolesi a Roma nel maggio del 1734. Il grande caricaturista Pierleone Ghezzi, incuriosito da questo giovane maestro di Cappella napoletano, schizzò in questa occasione l’unica rappresentazione autentica di Pergolesi che a noi sia pervenuta; in un primo tempo egli ne ritrasse dal vivo solo il volto, al quale più tardi (in un secondo disegno) aggiunse a memoria la figura intera. I due ritratti ci mostrano un giovane tarchiato, con un profilo dai lineamenti forti, vagamente negroidi; nel secondo, a figura intera, la gamba sinistra è rattrappita com’è tipico dei poliomelitici. Davvero qualche cosa di molto lontano dalle tante immagini idealizzate di pura fantasia che si sono accumulate dal Settecento sino ai nostri giorni.

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