Per gentile concessione dell’editore Zecchini, pubblichiamo l’intervista di Nicola Cattò a Carlo Vitali sul caso Luchesi. L’articolo è stato pubblicato sul numero di marzo 2018 della rivista «Musica».

Cattivi maestri, pessimi allievi

di Carlo Vitali

Da mesi Carlo Vitali porta avanti una battaglia, con altri illustri colleghi, volta solo alla difesa della verità storica, contro il pernicioso virus diffuso da due autoproclamatisi «musicologi» valtellinesi che, con due poderosi volumi dedicati a Mozart, hanno riesumato vecchie tesi legate ad Andrea Luchesi. Ecco dunque che lo stesso Vitali risponde con dovizia di dettagli ad alcune domande che fanno chiarezza sulla situazione, recensendo altresì una pubblicazione discografica del Requiem del Luchesi.

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Christian Gottlob Neefe (1748-1798) – 
Ritratto a olio di anonimo.
 Beethoven-Haus Bonn, B 1934.
(attribuito falsamente
ad Andrea Luca Luchesi
da Giorgio Taboga)

Quando nasce il «caso Luchesi» nella musicologia italiana? Chi lo porta avanti? Di cosa si tratta, in breve?
Ancora nel 1978 una vasta compilazione enciclopedica come La musica italiana nel Settecento di Roberto Zanetti classificava Andrea Luchesi nella categoria dei «minimi». Fino a quella data e oltre, la letteratura sul compositore veneto constava di contributi in lingua tedesca, per nulla riduttivi nei suoi confronti. L’anno della svolta è il 1994, quando Giorgio Taboga, professore di matematica ignaro di musica per sua stessa ammissione, pubblicava una monografia che, ricorrendo a catene di illazioni non supportate, citazioni travisate e stile tribunizio, disegnava una figura grottescamente ingigantita sul piano biografico e artistico: Andrea Luchesi. L’ora della verità, Ponzano Veneto, 1994.

Quasi una piramide rovesciata che poggia sul vertice: il classicismo viennese sarebbe una scuola musicale costruita a tavolino per divulgare il mito della Grande Austria, faro di arte e civiltà. Citando per brevità da uno dei tanti articoli, libelli e conferenze coi quali l’autore si fece sino alla morte instancabile apostolo della propria «verità», troviamo perle di questo genere: «La Wiener Klassik è […] da considerare un fenomeno tutto italiano. L’illustre idiota Haydn non ha composto una sola sinfonia e quelle ancora a lui intestate sono di Sammartini e Luchesi; anche le grandi messe e gli oratori non sono suoi. I settanta lavori già scoperti non suoi dimostrano che Mozart è ancora un nome comune. Le sue migliori sinfonie sono da accreditare a Luchesi; Beethoven è potuto divenire un genio della musica grazie al lungo ed accurato insegnamento che ebbe a Bonn dal kapellmeister Andrea Luchesi» (2000). Oppure: «la musicologia austro-tedesca ha perpetrato un cosciente ed imperdonabile delitto contro l’arte musicale e la verità, e deve essere chiamata a renderne conto davanti al tribunale della storia» (2004).

Sulle prime la comunità scientifica trovò che non valesse la pena di confutare simili tesi, buone solo ad impressionare un pubblico di sprovveduti. L’unica recensione qualificata delle «rivelazioni» taboghiane, a firma di Maria Girardi sulla «Nuova rivista musicale italiana» del 1997, parlava di fantasie prive di fondamento, eppure intorno al 2004-5 Taboga ebbe un breve momento di attenzione dalla musicologia ufficiale italiana. Si tennero alcuni convegni e tavole rotonde (una a Milano organizzata dagli Amici del Loggione), ma il consensus accademico non cambiò: fantasie di un dilettante mosso dall’amor di campanile.

Defunto nell’ottobre del 2010 il padre di tutti i revisionisti, la sua eredità è passata a una mezza dozzina di seguaci: pessimi allievi di un cattivo maestro assai variegati per competenze e stile comunicativo. Chi segue il dibattito sul blog di Giovanni Tribuzio e altri siti collegati, fra cui quello di MUSICA (parola chiave: «L’Accademia della Bufala») ne conosce i nomi e le gesta, finora contenute entro l’italico recinto con l’eccezione dello scozzese Robert Newman, inquisitore di un complotto gesuitico-asburgo-massonico per governare il mondo. Un saggio della sua dottrina: «Prima del 1773 […] entro la Chiesa cattolica ci si era mossi per sfuggire al canto gregoriano e alla musica barocca. Questo movimento alla moda verso una nuova musica si potrebbe forse definire al meglio «pastoralismo» o «neo-classicismo» […] Alcuni di questi Arcadi italiani risiedevano a Bologna e si dedicavano al Petrarca».

Mi spiego?

Chi era veramente Luchesi?
L’utile fantasma della scuola cospirazionista per due motivi: la scarsità della sua produzione accertata e la povertà di dati biografici. A partire da questi vuoti è stato possibile attribuirgli di tutto e di più, costruendo (stavolta sì a tavolino!) un genio misconosciuto. Un po’ com’era accaduto in URSS col mitico inventore Aleksandr Stepanovič Popov…

Quali dati certi abbiamo a livello biografico?
Pochissimi, a cominciare dalla sua formazione veneziana attestata solo da un articolo (1783) del suo dipendente Christian Gottlob Neefe, forse basata su dichiarazioni orali dell’interessato. Secondo Neefe, Luchesi aveva studiato lo stile teatrale col napoletano Gioacchino Cocchi e quello ecclesiastico prima con padre Giuseppe Paolucci e poi con Giuseppe Saratelli, maestro di cappella a San Marco. Punto. Per altri maestri e «contatti» evocati da Taboga e seguaci (Bertoni, Galuppi, Vallotti, Anfossi, Jommelli, Sacchini, Sarti e altri) il criterio sotteso al prolisso catalogo è «non poteva non conoscerli» perché passarono tutti da Venezia in quel periodo. Di fatto, per una parte del 1768 Luchesi prestò servizio agli Incurabili come sostituto di un sostituto di Galuppi, assente per tournée a Pietroburgo. E col celebre padre Vallotti ebbe una conversazione «amabile e proficua» nel corso di una visita a Padova. Contatti e conversazioni non equivalgono ai millantati «lunghi studi teorici e pratici», se no io potrei vantarmi allievo di Sartre. Sulla fortuna veneziana di Luchesi i testimoni discordano: padre Paolucci scriveva di lui a padre Martini nel febbraio 1768: «fu mio scolare, fece altre opere con pessimo incontro»; e nei Notatori Gradenigo si parla di sue composizioni sacre, Messa e Vespri, eseguite al convento di San Lorenzo «per la prima volta con lode» (1764) ma nella seconda «non troppo applaudite» (1768).

Dunque l’emigrazione in Germania poté derivare da uno scarso successo in patria?
Non mi pare inverosimile, anche se per Taboga e seguaci Luchesi doveva essere il deus ex machina chiamato a risollevare le sorti della cappella elettorale di Bonn degradata da Ludwig van Beethoven il vecchio, nonno del Titano. Qui le millanterie piovono: quella di Bonn non era affatto «la terza in graduatoria» fra le migliori cappelle tedesche; per sostenerlo ci si appiglia al Musikalischer Almanach di Forkel (1782-83), che non è una classifica ma un itinerario per raggruppamenti territoriali. Del risanamento tecnico e disciplinare si occupò – coi titoli di Musique-Director e «consigliere titolare della camera di corte elettorale» (funzionario con poteri gestionali), più uno stipendio pari a quello di Luchesi, cioè mille fiorini l’anno – il primo violino Gaetano Mattioli, che nei calendari di corte figura sempre davanti a lui. Mattioli, coinvolto in uno scandaletto sessuale della consorte, lasciò Bonn nel 1784, ma solo nel 1787 Luchesi, prima elencato con un semplice Herr (signore), acquisterà il titolo di «consigliere elettorale titolare», del resto puramente onorifico. Chiedo scusa per questi barocchi dettagli di cerimoniale; resterebbe molto da aggiungere, ma quanto detto basta per intuire che la stella del complesso di Bonn era Mattioli, e non Luchesi. Che anzi nel 1785, con l’avvento di Max Franz d’Asburgo, fratello del Kaiser Giuseppe II, si vide decurtare lo stipendio a 600 fiorini, meno del nuovo Konzertmeister Josef Reicha. Tuttavia restò a Bonn. Il suo posto era garantito a vita, aveva fatto un ricco matrimonio con una signorina del luogo e poteva vivere di rendita nella sua nuova patria.

Luchesi come autore di alcune Sinfonie di Mozart: perché nasce questa vexata quaestio?
Tanto vexata non direi. È proprio sull’eclissi volontaria di Luchesi all’età di 44 anni che fioriscono le spericolate elucubrazioni di Taboga e seguaci. Accampando una diffusa «prassi dell’anonimo» non provata da alcun documento dell’epoca (ne esiste anzi la prova contraria nella cosiddetta Regulatio Chori Kissmartonensis del 1765, nota agli studiosi di Haydn) essi fantasticano che Luchesi fosse tenuto per contratto a fornire partiture non firmate e pagate in nero, che il suo principesco padrone faceva intestare ad libitum ai propri beniamini: anzitutto Haydn e Mozart. Di tale gherminella essi hanno cercato prove nel Fondo Luchesi della Biblioteca Estense di Modena e nei suoi inventari, senz’altro frutto che di svelare la propria incompetenza nelle scienze ausiliarie della filologia musicale: paleografia, diplomatica, stemmatica, codicologia.

Le fonti modenesi sono state vagliate da tutte le pubblicazioni scientifiche su Haydn e Mozart, incluse le edizioni critiche dei rispettivi opera omnia (Haydn-Werke e Neue Mozart-Ausgabe). Sulla base del Fondo estense nessuno studioso serio ha mai individuato la possibilità di attribuire a Luchesi opere catalogate a nome di Haydn o di Mozart: non lo fa il riscopritore di Luchesi, cioè Anton Henseler (1937), e neppure la principale studiosa attuale, Claudia Valder-Knechtges, che a Luchesi ha dedicato tre libri e molti saggi. Mi limito a notare che delle Sinfonie KV 504 («Praga») e KV 551 («Jupiter») abbiamo le partiture autografe recanti traccia del lavoro compositivo (note cambiate, battute cancellate prima di essere orchestrate, la coda dell’Andante della 551 rifatta in toto); per la «Praga» anche schizzi nei quali Mozart sperimentò certi passaggi problematici prima di metterli in partitura. Lo stesso vale per Nozze di Figaro, oggetto di un buffo tentativo di disattribuzione da parte dei nostri revisionisti. Se le sinfonie non sono di Mozart, quelle fonti le avrà scritte un abile falsario al fine di alimentarne il mito; oppure le cucinò lo stesso Mozart per mistificare i musicologi del futuro. La problematica è forse troppo tecnica per interessare i nostri lettori; ad essi credo basterà la reazione di un musicistaumanista di altissima caratura quale Alexander Lonquich, che in una recente intervista rilasciata a Mirko Schipilliti per un pool di quotidiani veneti ha affermato: «solo chi è completamente sprovvisto della conoscenza degli idiomi di questi autori [Haydn e Mozart, ndr] può immaginare che un mediocre come Luchesi potesse muoversi con maestria dal nulla in due mondi sonori così ben identificabili». È la voce della ragione contro la musicologia fai-da-te.

Quanto c’è di vero nelle tesi di della Croce, che lo vuole maestro di Beethoven?
Luigi della Croce di Dojola, classe 1927, di professione giornalista e funzionario CEE, si può definire un revisionista moderato. Autore di fortunate guide per discofili dedicate a una parziale ricatalogazione di tre Grandi del sinfonismo classico (Le 107 sinfonie di Haydn, Torino 1975, Le 75 sinfonie di Mozart, 1977, Le 33 sinfonie di Boccherini, 1979), si è cautamente distanziato dalle intemperanze del Taboga, ma ne ha sdoganato in un congresso berlinese del 1999 questo particolare teorema, basato sull’ovvia contiguità funzionale tra Luchesi e il giovane Beethoven. Siamo sempre al «non poteva non», ma nel silenzio del Titano circa questo discepolato, ovviamente attribuito a moventi ignobili, ci soccorre soltanto un aneddoto riferito dal biografo Alexander W. Thayer. Riguarda una cantata funebre in onore di George Cressner, diplomatico britannico morto a Bonn nel gennaio 1781. Il decenne Ludwig ne avrebbe composto la musica (purtroppo perduta) pregando poi Luchesi di correggerla. Al che il Kapellmeister gliel’avrebbe restituita dicendo di non poterlo accontentare perché non ci capiva nulla, ma che comunque l’avrebbe fatta mettere in prova. Lodevole tratto di tolleranza da parte di Luchesi, ma non indice di un suo fervido impegno nella didattica. L’episodio è riferito sulla fede di un certo Bernhard Mäurer, a quell’epoca non più al servizio della cappella di Bonn. Gossip malevolo oppure storia vera riferitagli dagli ex colleghi? Né Hugo Riemann, primo editore della biografia di Thayer, né Taboga e seguaci sembrano inclini a scartarla del tutto. Certo che come prova di un «lungo ed accurato insegnamento» vale poco. E se a Bonn era disponibile un tanto pedagogo, perché nel 1792 il conte Waldstein avrebbe speso soldi per mandare Beethoven a Vienna onde «raccogliere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn»?

Che tipo di compositore era Luchesi, sia nel repertorio sacro sia in quello profano? Quali le pagine migliori? Come descriverle?
In base a quanto ho finora ascoltato, non vedo ragioni per discostarmi dal giudizio coevo del già citato Neefe: «Preso in generale, è un compositore leggero, piacevole e allegro, e più pulito nel contrappunto rispetto alla maggior parte dei suoi connazionali. Nei suoi lavori da chiesa non si attiene sempre alla scrittura rigorosa, scelta cui molti compositori sono talora indotti per rendersi graditi ai dilettanti». Senz’altro un buon artigiano non incline a grandi audacie creative. Prendiamo la sinfonia dell’opera seria Ademira (Venezia 1784). Temi formati da progressioni e ribattimenti piuttosto pedissequi; forma scontata con prima sezione alla tonica e alla dominante, timido sviluppo ancora alla dominante e ripresa quasi invariata. Le pagine migliori mi paiono quelle per tastiera; penso a quelle incise da Roberto Loreggian all’organo e da Roberto Plano al pianoforte. Plano ha scoperto una cadenza di Mozart per un Concerto in fa maggiore di Luchesi, lavoro che Wolfgang proponeva volentieri ai propri allievi. Del veneto «Maestro di Cembalo» – come senza particolari riverenze lo definì Leopold nei suoi appunti di viaggio del 1771 – quella è una pagina piacevole e ben costruita, vagamente affine ad analoghi lavori di Paisiello.


CD
LUCHESI Requiem R. Canzian, E. Biscuola, R. Botta, A. Badia; Nuova Orchestra Busoni, Coro della Cappella Civica di Trieste, direttore Massimo Belli
CONCERTO CLASSICS 2103
DDD 58:27
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Sarebbe ingeneroso addebitare al compositore di Motta di Livenza la gloria posticcia di cui l’ha insignito una certa scuola revisionista. Esaminate senza prevenzioni, le sue pagine qui registrate non si scostano da una decorosa media di quello «stile misto» che intorno alla metà del Settecento dominava la prassi delle cappelle ecclesiastiche italiane, e che la musicologia tedesca tuttora si compiace di chiamare «napoletano». Il Requiem di Luchesi (ma sarebbe più esatto parlare di Introitus più «Dies Irae», mancando tutte le altre sezioni di una Missa defunctorum) è databile verso il 1770, dunque prima della sua emigrazione in Germania. Non si distingue né per un intenso tono luttuoso né per gravitas di contrappunto, rimpiazzata da massicci cori omofonici. «Quantus tremor» e «Tuba mirum» presentano fanfare di ottoni forse più adeguate a una mondana Festmusik ovvero sinfonia di caccia, il fugato di «Liber scriptus» si basa su un ilare temino da opera buffa, nello «Judex ergo» il primo violino concerta col tenore in spericolate agilità belcantistiche, «Ingemisco» è un soave andantino amoroso su basso arpeggiato. In generale il gioco armonico si aggira sui gradi fondamentali, con prevedibili sequenze di I-IV-V-I, uso della sesta napoletana e del cromatismo discendente come emblema di dolore, poche idee tematiche memorabili. Arrotonda il programma una festosa Ave Maria «alla breve», pagina ricca di colore orchestrale su un testo tropato che rimanda all’uso liturgico come offertorio. Benché segni un progresso rispetto alla precedente incisione Tactus diretta da Giovanni Battista Columbro (2005), la qualità interpretativa lascia ancora a desiderare, specie per quanto riguarda l’omogeneità di un quartetto solistico dove il tenore rappresenta l’anello tecnicamente più debole; meglio l’esperto mezzosoprano Elena Biscuola, e non male gli altri due solisti. Il coro è formato da volonterosi semi-amatori e dopotutto non se la cava male. Lo stesso vale per l’orchestra di strumenti moderni. Nelle note di copertina, Bruno Belli (non parente del direttore) accenna più volte a «sapori» mozartiani che sfuggono al nostro rozzo palato; i passi da lui segnalati ci fanno semmai pensare a degnissimi esponenti della scuola veneziana coeva quali Bertoni e Galuppi. Viceversa è lodevole la sobrietà del musicologo nel ridimensionare le iperboli di Giorgio Taboga, qui citato solo per smentire l’identità del presente Requiem con quello destinato alle esequie (1771) del duca Joaquín de Montealegre, ambasciatore di Spagna alla Serenissima. Si tratta invece di una compilazione di brani preesistenti, unificati dalla tonalità di Fa maggiore e forse arricchiti durante il periodo bonnense sì da formare una sorta di centone. Scarso pregio ha peraltro la sua menzione, altra farina del sacco taboghiano, di un «fondo personale» di lavori del Luchesi venduto dalla vedova e disperso fra più proprietari. Dell’esistenza di tale fondo non v’è prova. L’asta ebbe luogo nel marzo del 1826, qualche tempo dopo la morte della vedova e della figlia Caterina; lo attestano le fonti archivistiche studiate da Anton Henseler e Claudia Valder-Knechtges.

Carlo Vitali