Come discusso ampiamente fra musicologi, musicisti, studiosi e attenti osservatori, nei due contestatissimi volumoni di Luca Bianchini e Anna Trombetta Mozart. La caduta degli dei gli autori adottano procedimenti di scrittura che insinuano nel lettore dubbi ingiustificati al fine di trasformarli in certezze ingannevoli e falsate, avvalendosi di citazioni secondarie o terziarie – parziali e/o distorte –, di una tecnica narrativa simile a quella dei negazionisti, ma soprattutto sfruttando “margini di ambiguità” o di “incertezza”, specie in caso di apocrifi e della storia sulle attribuzioni mozartiane.

In particolare, si manipolano quei minimi laschi di approssimazione o di incertezza come “leve moltiplicative” per creare invece criticità e contestare le consapevolezze storiche e scientifiche già ampiamente validate. Giocando sull’ingenuità dei fruitori ultimi, si impiega così una strategia particolarmente efficace con tre tipologie di destinatari:

a) chi ha già una “predisposizione” avversa al consensus;

b) chi ha difficoltà a comprendere o accettare la complessità delle problematiche, ossia non in grado di essere consapevole degli intrinseci margini di ambiguità ed incertezza che caratterizzano qualsiasi lavoro storiografico in questione (un fervente appassionato che vuole documentarsi, per esempio), se non addirittura privi, inconsapevolmente, di strumenti critici adeguati, per età e livello di istruzione (un giovane studente, per esempio, alla peggio che deve svolgere una ricerca per la scuola magari controvoglia);

c) chi è un completo neofita in materia.

A questo si mescola, sempre subdolamente, una buona dose di moralismo fuori tema frammisto a sua volta ad anacronistico neo-nazionalismo, e infine – fatto ancora più grave, forse il più grave – l’essere tutto incorniciato dall’esibizionismo testardo e pretestuoso del proprio titolo accademico, in questo caso di “musicologo”, usato per avallare a priori le proprie teorie balorde con marchio cocciuto di sicura qualità e garanzia.

Il meccanismo è perverso: si sostiene che la “laurea” sia tutto, come una rondine che fa primavera, e che ciò investa il proprio titolare del diritto supremo e ultimo di parola incontrovertibile nel proprio ambito, costi quel che costi. Ciò, implicito o meno, rimane dettato da una visione del mondo distorta in cui l’apparenza dovrebbe essere tutto, della serie “Lei non sa chi sono io!”, ma anche da falsità, perché si avvalorano con ossequio le tesi di chi fa comodo, magari di un insegnante di matematica come Giorgio Taboga.

Tuttavia, non è che chi si laurea in conservazione dei Beni Culturali è un bene culturale, così come chi si laurea in Medicina non è automaticamente un medico. Quest’ultimo dovrà sostenere un esame di stato di abilitazione e successivamente attenersi all’obbligo di iscrizione al relativo ordine professionale con accettazione del codice deontologico, al fine non solo di esercitare la professione ma anche di pubblicizzarne il titolo stesso. Per i musicologi non esiste albo, esistono le pubblicazioni nel proprio settore, libri e articoli, per esempio, ma conta anche il “peso” delle stesse, se, in particolare, appartengono a riviste specializzate, a sua volta di “peso” differente, nonché il ruolo istituzionale ricoperto (se per esempio si insegna in un’università o in conservatorio in qualità di Istituto di Alta Formazione Artistica-Musicale), e infine – last but not least – la bontà dei contenuti di quanto sostenuto.

È ovvio che la scoperta del secolo rimane tale, vedi, ad esempio, la teoria della relatività di Einstein come tutti i suoi primi scritti. Ma di che scoperte e apporti originali stiamo parlando nei due volumoni? Così, la parola di un medico a tutti gli effetti, per esempio, vale di più a seconda della sua posizione nel settore e del “peso” scientifico delle proprie pubblicazioni: un conto è essere primo autore di un lavoro per Lancet o Nature, altro è scrivere per una rivista poco o per nulla citata o censita. L’esempio estremo dell’abuso del proprio titolo accademico è quando si vada poi contro i principi intrinseci della professione, ovvero si inganni il destinatario spingendosi nel crimine vero e proprio, per convenienza economica o per errate convinzioni antisociali: è il caso, ad esempio, di chi svolga interventi chirurgici non indicati solo per puro guadagno o del “dottor morte”, l’assassino che si maschera con la propria professione. Nelle discipline intellettuali il giochetto è più subdolo, non muore nessuno, ma si può abusare della coscienza altrui sperando di farla franca, anche con guadagno economico.

E dovremmo lasciar correre? Se avete dubbi vi invitiamo a leggere il bel libro di Paolo Maurensig dal titolo La variante di Lüneburg, visto che a qualcuno piace citare il nazismo: ad ogni errore con pezzo eliminato in una partita a scacchi segue una vittima in camera a gas. Pensate alle varie responsabilità di un medico nell’esercizio della professione: penale, civile, amministrativa, deontologica, disciplinare, contrattuale.

E per gli “intellettuali”? Così come è stato coniato il termine “malasanità”, ad indicare soprattutto l’associazione a delinquere e il dolo in ambito sanitario, da affiancare alla “malpractice” intesa come varia combinazione colposa di imperizia, imprudenza e negligenza, proponiamo ora per i tomi in esame il termine onnicomprensivo di “malamusicologia”, la pseudomusicologia da strapazzo che fa guadagnare denari senza alcuna metodologia di ricerca scientifica – evidenced based dovremmo dire – giocando anche sull’inganno del lettore-acquirente.

Conclusione: se abbiamo un problema di salute andiamo dal medico, ma se abbiamo un quesito musicologico andremo da Bianchini e Trombetta?