La presente recensione viene ripubblicata per gentile concessione della rivista “Musica” e di “Le Salon Musical”.
English and German translations available below

The Farinelli Manuscript
mezzosoprano Ann Hallenberg
ensemble Stile Galante, direttore Stefano Aresi
cd Glossa GCD 92352


One God, One Farinelli!
mezzosoprano Cecilia Bartoli
ensemble Il Giardino armonico
direttore Giovanni Antonini
cd Decca 4850214


L’uscita quasi simultanea di due album dedicati al mito Farinelli dimostra quanto sia durevole l’onda lunga smossa nel 1994 dal filmaccio di Corbiau, il cui elemento più interessante stava proprio nel tentativo, compiuto dai laboratori dell’IRCAM parigino, di ricreare la voce perduta del grande castrato mediante il morphing di un falsettista (Derek Lee Ragin) con una soprano-coloratura (Ewa Małas-Godlewska). Da allora si sono moltiplicati i volonterosi cloni umani, nessuno dei quali, per varie ragioni, si è troppo avvicinato all’artificiale perfezione del modello tecnomorfo. E continua la faida avviatasi tra i pionieri autodidatti, oggi percepiti come inascoltabili, di metà anni ’80: controtenori contro donne con le gonne; all’agro Christofellis e alla coccodeggiante Nella Anfuso sono succeduti nella penultima e ultima generazione vocalisti dal bagaglio tecnico a volte assai raffinato. Due nomi fra tutti: Franco Fagioli e Julia Lezhneva; ma della real thing, lode a Dio, ancora nessuna traccia neppure in questa nostra epoca che vagheggia balzani esperimenti sulla produzione di ultracorpi dall’identità sessuale volatile.

                Sia lode anche alla signora Hallenberg per aver onestamente dichiarato in un’intervista al “Giornale della Musica”, centrata sulla sua ultima produzione discografica: “A volte si dice che i controtenori non sono adatti per imitare i castrati: in un certo senso non lo sono nemmeno i mezzosoprani, perché nemmeno noi siamo fisicamente uguali a questi cantanti del passato. Io mi esercito quanto più posso, faccio del mio meglio, ma non ho la capacità polmonare né la qualità di voce per farlo. Sono consapevole che non sarà mai esattamente lo stesso“. Peccato che di altrettanta umiltà non soffra il suo partner di ormai lunga data, quel band-leader e musicologo Stefano Aresi che nelle note di copertina si autocertifica il ruolo di primo ritrovatore di tante verità sfuggite ai suoi predecessori. Biografia, contesto storico, prassi esecutiva storicamente informata: è arrivato Copernico.

                Ermeneutica della discontinuità che non a caso si tinge di complottismo alla moda. Nel caso specifico si denuncia la propaganda antispagnola montata dall’ambasciatore britannico Keene, da Charles Burney (che intervistò di persona il Farinelli) e dal protobiografo Giovenale Sacchi (che disponeva di notizie fornite dalla cerchia di Padre Martini, altro intimo del cantante), onde propalare fake news sul conto di Filippo V e Ferdinando VI di Borbone, padre e figlio morti entrambi dementi – e questi invece sono fatti accertati. Non 4 o 5 arie ogni sera, si scandalizza il Nostro, ma 8 o 9! Il dato, testimoniato dallo stesso Farinelli, era già conosciuto e copiosamente analizzato in letteratura dal 1990; però non è stato Aresi a scoprirlo, come chiunque potrà verificare dalla tesi di dottorato (2014) di Anne Desler, l’unica studiosa di cui egli faccia menzione.

                Peggio ancora quando il maestro Aresi tenta di giustificare l’organico sparagnino della sua registrazione, in pratica a parti reali, con una documentazione iconografica quando indecifrabile (un’incisione di Flipart,  1752), e quando irrilevante (un disegno a guazzo ricavato dalla Descripción del estado actual del Real Theatro del Buen Retiro […], 1758). Qui vediamo in effetti un quartetto d’archi e un cembalista che, da osservatori in riposo, assistono alla consegna del citato rendiconto da parte di un ossequioso Farinelli ai suoi regali padroni. Se Aresi non si fosse limitato a guardare le figure, avrebbe letto nella medesima fonte che dal 1748 l’organico orchestrale stabile nel Real Coliseo del Buen Retiro si componeva di 44 elementi specificati con nome, ruolo e salario: 28 archi, 7 legni (oboi e fagotti), 4 ottoni (trompas e clarines, cioè corni e cornette), 2 timpani e tre clavicembali. Una formazione cui per i tempi si addice l’epiteto di “numerosa” elargito più volte dalla “Gaceta de Madrid”. Di 28 elementi quella più ridotta che in primavera seguiva la corte alla villeggiatura di Aranjuez: 16 archi, 6 legni, 4 ottoni e 2 cembali, con sbilancio delle proporzioni a favore dei fiati visto che colà si suonava molto all’aria aperta imbarcando l’orchestra sulla flotilla del Tago. Certo non era esclusa la possibilità di organici ridotti per interventi speciali, come ad esempio due oboi e due corni: “los cuatro músicos que tocaron en los jardines de Aranjuez” nel 1754-55; ma è aberrante pretesa che per accompagnare arie d’opera in grande stile una coppia di corni si cimentasse con appena un quartetto d’archi, un contrabbasso e un clavicembalo.

                Controprova empirica: nell’aria di Mele “Io sperai del porto in seno” (track 6) non è difficile percepire che i corni sono stati mixati e livellati a capocchia  mentre gli oboi si sentono poco o punto. Di altre fallacie metodologiche si tace per brevità; su una, divenuta mainstream dopo un’azzardata ipotesi di Robert Freeman (1974), abbiamo già discusso in opportuna sede scientifica: il “manoscritto di Vienna” non era dedicato a Maria Teresa, bensì al suo imperial marito Francesco Stefano. Quisquilie; ciò che qui ci preme sottolineare è l’inetta direzione musicale – piatta e arbitraria nella gestione delle dinamiche – che lascia esposta la brava Hallenberg a una grandinata di difficoltà tecniche a dir poco efferate senza offrirle più di un fragile riparo. Se con questa silloge di 6 brani l’ormai pensionato Farinelli del 1753 voleva “darsi delle arie”, lui poteva; altri proprio no.

                Programma meno organico sulla carta, però gestito con maggiore professionalità, quello del Giardino Armonico nella formazione 4-5-3-2-1 negli archi, più 3 tiorbe, 2 oboi, 2 corni, fagotto, 2 trombe, cembalo e organo. Semmai qualche scialo nella sezione di continuo, ma dopo tanta carestia ben venga. Della carriera pubblica di Farinelli sono qui campionati a macchia di leopardo i debutti romani e napoletani (1724-25), gli anni di viaggio fra il Norditalia e Vienna (1731-33), e l’apogeo londinese (1735-36); gli autori sono quasi tutti di primissimo rango (Porpora, Hasse, Giacomelli e Caldara, più lo scapestrato fratello Riccardo). Piazza d’onore riservata al primo maestro del nostro eroe con 3 arie dal Polifemo,che chiude il programma sulla struggente “Alto Giove” affidata a mo’ di bonus ai monegaschi Musiciens du Prince guidati da Gianluca Capuano. E qui finalmente affiora quel Farinelli intimista, a suo stesso dire radicalmente “riformato” dopo il 1732 dall’imperial-regia lezioncina di Carlo VI; era ora. Riformato appare anche Antonini: il tono del Giardino risulta ovattato e privo delle scapigliature che sono sempre state il suo marchio di fabbrica. Al nuovo apprezzabile corso forse non sarà estranea la volontà della Diva Cecilia, cui nella tessitura centrale e nel legato cantabile riesce di far dimenticare taluni eccessi in fatto di emissione aspirata, agilità furibonde, fonetica deformata, disconnessione dei registri. Del suo vecchio stile permane un residuo nel brano d’apertura, come pure in un paio d’arie “di sdegno” e “di tempesta” (tracce 6 e 8). Ma non è impossibile che tali manierismi di dubbio gusto siano il laccio che più tiene avvinto lo zoccolo duro del suo fan club, al quale piacerà magari anche la serie degli scatti fotografici (11 salvo errore) dove la giunonica signora di Trastevere compare nei panni di un/a barbuto/a Conchita Wurst. Lungi da noi farne una questione di autenticità. Pure se il Farinelli storico confessava di essere attratto dalle donne, vale comunque l’adagio “donna barbuta è sempre piaciuta”; e non dovrà il postmoderno art director  bruciare il suo granello d’incenso sull’altare dello Zeitgeist? Buon pro’ gli faccia.


ENGLISH

                The almost simultaneous release of two albums based on the Farinelli myth reveals just how indelible is the long wave triggered in 1994 by Gérard Corbiau’s tacky film, whose most interesting feature was the attempt, concocted in the Parisian laboratories of IRCAM, to recreate the lost voice of the great castrato by morphing the voice of a falsettist (Derek Lee Ragin) with that of a coloratura soprano (Ewa Małas-Godlewska). Since then, the number of willing human clones has multiplied, none of which, for various reasons, has come too close to the artificial perfection of the technomorphous model. As a matter of fact, the feud that began in the mid-1980s among the self-taught pioneers, whose early results are considered unlistenable today, is still alive: countertenors against women in skirts; the sour-sounding Christofellis and the hen-like cackling of Nella Anfuso have been followed by two subsequent generations of vocalists who are, at times, gifted with sterling technical skills. Two names among them: Franco Fagioli and Julia Lezhneva. But of the real thing, praise be to God, there is still no trace, even in our age of eccentric transhumanist experiments and of volatile sexual identity.

                Praise also be to Lady Hallenberg for honestly stating in an interview with “Giornale della musica” regarding her latest record production: “It is sometimes said that countertenors are not a suitable surrogate for castrati: in a way, neither are mezzo-sopranos, because like them, even we mezzos are not physically similar to those singers of the past. I practice as much as I can, I do my best, but I don’t have the lung capacity or the voice-quality to do it. I am aware that the outcome will never be exactly the same.” It’s a pity that her longtime partner, the bandleader and musicologist Stefano Aresi, who in the liner notes anoints himself as the intrepid first discoverer of so many truths that his predecessors missed, doesn’t suffer from the same humility. Biography, historical context, historically informed performance practice: Copernicus has arrived.

                Hermeneutics of discontinuity, which not by chance is tinged with fashionable conspiracy theories. In this specific case, he denounces the anti-Spanish propaganda, which had allegedly been spread by the British ambassador Keene, by Charles Burney (who personally interviewed Farinelli) and by the proto-biographer Giovenale Sacchi (whose information was provided by individuals from the circle of Padre Martini, another intimate of the singer), in order to spread fake news bringing disgrace on Philip V and Ferdinand VI of Bourbon, the father and son who both died demented – indeed, however, this was not mere propaganda, but established fact. There were not 4 or 5 arias sung every night, writes our indignant musicologist, but 8 or 9! This claim, made by Farinelli himself, has already been known and copiously analyzed in the literature since 1990, but it was not Aresi who discovered it, as anyone can verify from the doctoral thesis (2014) of Anne Desler, the only scholar he mentions.

                Worse still is Maestro Aresi’s attempted justification of the minimalist ensemble employed in his recording, in practice amounting to one player per part, allegedly supported by iconographic documentation ranging from the indecipherable (an engraving by Jean-Jacques Flipart, 1752) to the irrelevant (a gouache drawing from the Descripción del estado actual of the Real Theatro del Buen Retiro […], 1758). In fact, what we see in the latter image is a string quartet and a harpsichordist who, as passive observers, witness the delivery of the aforementioned document by an obsequious Farinelli to his royal masters. If Aresi had not limited himself to looking at the pictures, he would have read in the very same source that since 1748 the standing orchestral body of the Real Coliseo of Buen Retiro had consisted of 44 musicians specified by name, role and salary: 28 strings, 7 woodwinds (oboes and bassoons), 4 brass (trompas and clarines, i.e. horns and bugles/ trumpets), 2 timpani and 3 harpsichords. A formation which, for the times, is suitable for the epithet of “numerous” bestowed several times by the “Gaceta de Madrid”.  A smaller ensemble of 28 musicians followed the court on its spring vacation in Aranjuez: 16 strings, 6 woodwinds, 4 brass and 2 harpsichords – the imbalance in favour of the winds can be explained by their use in open-air performances of the orchestra on a flotilla navigating the Tagus River. Of course, reduced ensembles for special occasions were available, such as, for example, two oboes and two horns: “los cuatro músicos que tocaron en los jardines de Aranjuez” in 1754-55; but that a pair of horns would perform together with just a string quartet, a double bass and a harpsichord to accompany opera arias in grand style is a perverse claim.

Factual counterevidence: in Mele’s aria, “Io sperai del porto in seno” (track 6), it is easy to hear that the horns have been mixed clumsily while the oboes are almost inaudible. For the sake of brevity I will refrain from mentioning other methodological faults; one of these, which has become mainstream after a risky hypothesis by Robert Freeman (1974), has been already discussed by this writer in an appropriate scholarly forum: the “Vienna manuscript” was not dedicated to Maria Theresa, but to her husband, Emperor Franz Stefan. Mere trifles; what I would like to underline here is the inept musical direction – flat and arbitrarily chosen dynamics  – that leaves the capable Hallenberg exposed to a hailstorm of technical difficulties, brutal, to say the least, without offering her more than a fragile shelter. If, with this collection of 6 bravura arias, the now retired Farinelli of 1753 wanted to “give himself something to show off with”, (in colloquial Italian: darsi delle arie, translator’s note) he might have been entitled to; others just cannot.

                A less structured programme on paper, but managed with greater professionalism, is Giardino Armonico’s in a 4-5-3-2-1 formation in the strings, plus 3 theorbos, 2 oboes, 2 horns, bassoon, 2 trumpets, harpsichord and organ. If anything, the continuo section is a bit overblown, but after such penury this is most welcome. These tracks represent various stages of Farinelli’s public career, such as his Roman and Neapolitan debuts (1724-25), the years of travel through Northern Italy and Vienna (1731-33), and the climactic sojourn in London (1735-36); the composers are almost all of the highest rank (Porpora, Hasse, Giacomelli and Caldara, plus the dissolute brother Riccardo). A place of honour is reserved for our hero’s own mentor with 3 arias from Polifemo, closing the program with the poignant “Alto Giove”, a bonus track from the Monegasque Musiciens du Prince conducted by Gianluca Capuano. Here emerges at last the intimate side of Farinelli, who in his own words was radically “reformed” after 1732 by a lesson from Emperor Charles VI; just in time. Antonini appears reformed, too: the Giardino’s tone is muffled and devoid of the disheveled quality that has been its trademark long since. Perhaps the will of Diva Cecilia is not unrelated to this admirable new direction; when singing in the center of her tessitura and in legato cantabile, she succeeds in compensating for other excesses: the labored exhaling, unruly bravura outbursts, deformed vocal articulation, disjointed changes in register. A remnant of her old style resurfaces in the opening track, as well as in a couple of “rage” and “storm” arias (tracks 6 and 8). But it is not unthinkable that such mannerisms of dubious taste are the lace that holds together the sturdy core of her fan club, which perhaps will also appreciate the series of photographic poses (11 if I am correct) in which the Juno-esque Lady of Trastevere appears as a bearded Conchita Wurst. Far be it for us to call its authenticity into question. Even if the real Farinelli confessed to being attracted to women, the adage “donna barbuta sempre piaciuta” (“everyone likes a bearded lady”) seems still valid; and why shouldn’t the postmodern art director be allowed to burn a bit of incense on the altar of the Zeitgeist? More power to him. (Translation: John Wilson)


DEUTSCH

             Das fast gleichzeitige Erscheinen zweier Alben, dem Mythos Farinelli gewidmet, zeigt, wie dauerhaft die lange Woge ist, die das Filmmachwerk von Corbiau 1994 lostrat. Dessen interessantester Bestandteil eigentlich der Versuch ausmachte, die verlorene Stimme des großen Kastraten, mittels der Mischung und Umwandlung eines Falsettisten (Derek Lee Ragin) mit einer Koloratursopranistin (Ewa Małas-Godlewska), wiederherzustellen, ausgeführt von den Laboratorien des Pariser IRCAM. Seither haben sich die willigen menschlichen Klone vervielfacht. Von denen sich, aus verschiedenen Ursachen, keiner zu sehr der künstlichen Vollkommenheit des technisch-anverwandelten Modells angenähert hat. Und die zwischen den autodidaktischen Pionieren aus der Mitte der 1980er Jahre, die heute als unanhörbar wahrgenommen werden, begonnene Fehde dauert an: Countertenöre gegen Frauen in Röcken. Dem säuerlichen Christofellis und der gackernden Nella Anfuso sind in der vorletzten und der letzten Generation Sänger mit zuweilen recht verfeinertem technischen reichem Schatz gefolgt. Zwei Namen stellvertretend für alle: Franco Fagioli und Julia Lezhneva. Aber vom real thing, Gott sei gelobt, noch immer keine Spur – nicht einmal in dieser unserer Epoche, die mit verschrobenen Experimenten liebäugelt, mit der Herstellung von Hyperkörpern mit flüchtiger geschlechtlicher Identität.

             Gelobt sei auch Frau Hallenberg, dass sie in einem Interview mit dem „Giornale della Musica“, bezüglich ihrer letzten CD-Einspielung, aufrichtig erklärt hat: „Manchmal heißt es, die Countertenöre sind nicht geeignet, um die Kastraten nachzuahmen: in eine gewissen Sinne sind das die Mezzosoprane kaum mehr, weil nicht einmal wir körperlich diesen Sänger der Vergangenheit gleich sind. Ich übe mich, soviel wie ich kann; ich gebe mein bestes; aber ich habe weder die Lungenleistung noch die Stimmeigenschaft, um es zu tun. Ich bin mir dessen bewusst, dass es niemals ganz genau dasselbe sein wird“. Schade, dass ihr musikalischer Langzeitpartner nicht ebensolche Bescheidenheit duldet, jener band-leader und Musikwissenschaftler Stefano Aresi. Der sich in den Anmerkungen auf der CD-Hülle selbst der Rolle als erster Wiederentdecker so vieler Wahrheiten versichert, die seinen Vorgängern entgangen sind. Lebenslauf, geschichtliches Umfeld, historisch informierte Aufführungspraxis: Kopernikus ist eingetroffen.

             Auslegung der Zusammenhangslosigkeit, die sich nicht zufällig als moderne Verschwörungstheorie färbt. Im speziellen Fall wird die antispanische Propaganda vorgeführt, aufgestellt vom britischen Botschafter Keene, von Charles Burney (der persönlich Farinelli befragte) und vom Protobiografen Giovenale Sacchi (der über Notizen verfügte, die aus dem Kreis um Padre Martini geliefert wurden, einem anderen Intimus des Sängers), um fake news auf Kosten von Philipp V. und Ferdinand VI. von Bourbon zu verbreiten. Vater und Sohn verstarben beide dement – und dies sind indessen gesicherte Tatsachen. Nicht 4 oder 5 Arien, ereifert sich unser Schreiber, sondern 8 oder 9! Die Angabe, von Farinelli selbst bezeugt, war bereits bekannt und wurde seit 1990 mehrfach in der Literatur analysiert. Dennoch ist es nicht Aresi gewesen, der sie entdeckt hat, wie jeder in der Doktorarbeit (2014) von Anne Desler wird verifizieren können, der einzigen Wissenschaftlerin, welche er erwähnt.

             Noch schlechter, wie maestro Aresi versucht, die knauserige Besetzung seiner Aufnahme zu rechtfertigen, nahezu nach dem Prinzip „ein Spieler pro Stimme“, mit einem bildlichen Belegmaterial, das ebenso unergründlich (ein Kupferstich von Flipart, 1752) wie belanglos (eine Gouache, entnommen der Descripción del estado actual del Real Theatro del Buen Retiro […], 1758) ist. In diesem zweiten Dokument sehen wir tatsächlich ein vierköpfiges Streicherensemble und einen Cembalisten, die, als pausierende Beobachter, der Übergabe des zitierten Rechenschaftsberichtes, seitens eines ehrfurchtsvollen Farinelli an seine königlichen Gebieter, beiwohnen. Hätte Aresi sich nicht darauf beschränkt, die Figuren anzugucken, hätte er in der selben Quelle gelesen, dass sich das feste Orchester im Real Coliseo del Buen Retiro seit 1748 aus 44 Mitgliedern zusammensetzte, genau angegeben mit Namen, Zuständigkeit und Gehalt: 28 Streicher, 7 Holzbläser (Oboen und Fagotte), 4 Blechbläser (trompas und clarines, also: Hörner und Bügelhörner), 2 Pauken und drei Cembali. Ein Gebilde, welchem seinerzeit mehrmals das Beiwort „zahlreich“ von der „Gaceta de Madrid“ zugesprochen wurde. Mit 28 Mitgliedern sehr reduziert, folgte das Ensemble dem Hof im Frühling in die Sommerfrische nach Aranjuez: 16 Streicher, 6 Holzbläser, 4 Blechbläser und 2 Cembali. Mit dem Missverhältnis der Ausmaße zugunsten der Bläser, da man dort viel Freiluftkonzerte spielte, das Orchester auf der flotilla auf dem Tajo schiffend. Sicher war die Möglichkeit (weiter) verringerter Besetzungen zu besonderen Aufwartungen nicht ausgeschlossen, wie zum Beispiel zwei Oboen und zwei Hörner, nämlich „los cuatro músicos que tocaron en los jardines de Aranjuez“ (die vier Musiker, welche in den Gärten von Aranjuez spielten), in den Jahren 1754-55. Aber es ist eine perverse Zumutung, dass, um eine Opernarien in großem Stil zu begleiten, sich ein Hörnerpaar mit einer knapp vierköpfigen Streichergruppe, einem Kontrabass und einem Cembalo messen würde.

             Erfahrungsgemäßer Gegenbeweis: in der Arie von Mele „Io sperai del porto in seno“ (Track 6) ist es nicht schwierig, wahrzunehmen, dass die Hörner mit Tonkopf gemischt und eingeebnet sind, während die Oboen kaum oder gar nicht zu hören sind. Von weiteren methodischen Schwachpunkten schweige ich, der Kürze wegen. Einen, nach einer gewagten These von Robert Freeman (1974) mainstream gewordenen, haben wir bereits an geeignetem wissenschaftlichen Ort diskutiert: das „Wiener Manuskript“ war nicht Maria Theresia gewidmet, wiewohl ihrem kaiserlichen Ehemann Franz Stephan. Lappalien. Das, was man dringend unterstreichen muss, ist die unangebrachte musikalische Leitung – platt und willkürlich in der Handhabung der Dynamik –, welche die tüchtige Hallenberg einem Hagelschlag roher technischer Schwierigkeiten ausgesetzt lässt, ohne ihr mehr als eine brüchige Deckung zu bieten. Wenn mit dieser Sammlung von 6 Bravour-Arien der bereits ruheständlerische Farinelli sich 1753 „voleva darsi delle arie“ (etwa prahlen wollte), konnte er es freilich; andere eigentlich nicht.

             Ein auf dem Papier weniger organisches Programm, gleichwohl mit mehr berufsmäßiger Fähigkeit gehandhabt, ist das mit Il Giardino armonico in der Besetzung 4-5-3-2-1 bei den Streichern, ferner 3 Theorben, 2 Oboen, 2 Hörner, Fagott, 2 Trompeten, Cembalo und Orgel. Allenfalls ein etwas großer Aufwand in der Continuoabteilung, aber nach soviel Schmalkost käme sie gelegen. Von Farinellis öffentlicher Karriere sind hier die römischen und neapolitanischen Anfänge (1724-25), die Wanderjahre zwischen Norditalien und Wien (1731-33) und der Londoner Höhepunkt (1735-36) als buntscheckige Stichproben entnommen. Die Komponisten sind fast alle allererster Güte (Porpora, Hasse, Giacomelli und Caldara, ferner der zügellose Bruder Riccardo). Der Ehrenplatz ist dem ersten Lehrmeister unseres Helden vorbehalten, mit 3 Arien aus Polifemo, welche das Programm mit der verzehrenden Arie „Alto Giove“ beschließen, als Bonustrack den monegassischen Musiciens du Prince anvertraut, angeführt von Gianluca Capuano. Und hier endlich erblüht jener innig-vertrauliche Farinelli, laut seiner eigenen Aussage gründlichst „neugestaltet“ nach 1732, von der kaiserlich-königlichen leichten Zurechtweisung von Carl VI.; es war an der Zeit. Neugestaltet erscheint auch Antonini. Der Ton des Giardino kommt gedämpft hervor, und frei von den Zügellosigkeiten, die stets dessen Markenzeichen gewesen sind. Dem neuen schätzenswerten Kurs wird der Wille der Diva Cecilia vielleicht nicht fremd sein, welcher es in der zentralen Tessitur und im sanglichen legato gelingt, manche Übertreibungen hinsichtlich angestrebten Ausstoßens, ungestümer Bravour, unförmiger Lautbildung, Registerbrüche, vergeben zu lassen. Von ihrem alten Stil verbleibt ein Rest im Eröffnungsstück, wie noch in einem Paar von „Zornes-“ und „Sturm-“Arien (Tracks 6 und 8). Aber es ist möglich, dass derlei Manierismen von zweifelhaftem Geschmack das Seil sind, das den harten Kern ihres Fanclubs umschlungen hält. Dem sogar die Abfolge der Schnappschüsse (11 salvo errore) gefallen wird, worin die Juno-ähnliche Dame aus Trastevere in der Gestalt einer/eines bärtigen Conchita Wurst erscheint. Fern von uns sei es, daraus eine Angelegenheit der Authentizität zu machen. Doch wenn der historische Farinelli gestand, sich zu Frauen hingezogen zu fühlen, behält jedenfalls das Sprichwort „donna barbuta, sempre piaciuta“ (eine bärtige Frau hat noch immer gefallen) seinen Wert. Und muss nicht ein postmoderner art director sein Körnchen Weihrauch auf dem Altar des Zeitgeistes verbrennen? Möge es ihm Gutes bringen.  (Übersetzung:  Alexander Dishar)