Il quintetto K. 452 per cembalo e strumenti a fiato, conosciuto più come quintetto per pianoforte e strumenti a fiato, ha una storia curiosa. E ci piace cominciare da lì. Parliamo di quintetto per cembalo e strumenti a fiato, perché, a leggere sul manoscritto i due pentagrammi dello strumento a tastiera, c’è proprio scritto cembalo e non pianoforte.
Luca Bianchini e Anna Trombetta in “Mozart, la costruzione di un genio” (pp. 15-17)
Questo sarebbe l’inizio “col botto” dell’ultima – per adesso – fatica antimozartiana della premiata ditta Bianchini e Trombetta da Sondrio.
Sorvoliamo per una volta sulla “storia curiosa” riguardante la presunta non autenticità del brano e concentriamo la nostra attenzione sulla stizzosa pedanteria esibita dai due autori nello specificare che, avendo Mozart scritto negli autografi “cembalo” – che i due intendono ovviamente “a penna”, – e non “fortepiano”, l’esecuzione con quest’ultimo sarebbe inappropriata in quanto non rispetterebbe la volontà del compositore. E questo fatto, a quanto pare, li infastidisce non poco.
Procedendo nella lettura dell’opuscolo, notiamo infatti che la zelante messa a punto sul K. 452 si ripresenta a p. 48 a proposito del concerto K. 449 e così per il concerto K. 456 (p. 51). A p. 50, a proposito della sonata K. 454 per violino e pianoforte, leggiamo: ” … la parte del cembalo, che molti si ostinano a chiamare pianoforte … “.
Questo benedetto cembalo diventa insomma un vero e proprio tormentone ovunque si parli del repertorio di Mozart solitamente eseguito con pianoforte (o fortepiano che sia).
La geremiade sulla (a loro avviso) disdicevole pratica di sostituire il cembalo col pianoforte prosegue altresì sulle pagine di Facebook e, in uno dei vari post dedicati all’argomento, la professoressa Trombetta cerca addirittura di coinvolgere i pochissimi interessati (tra i quali – alquanto perplesso – il noto pianista Carlo Levi Minzi) in un tendenzioso quanto patetico indovinello pseudo musicologico imperniato sul concerto K. 450.
Ne pubblichiamo qui sotto uno stralcio eloquente:
Capito? ”… è un concerto per cembalo e orchestra. Mozart lo intendeva proprio così. Quando vuole il forte piano lo scrive espressamente.”
… mo’ vallo a dire a Malcolm Bilson e a Robert Levin, che hanno sbagliato tutto!
Ad ogni modo, l’intenzione di istruire il lettore neofita sull’esecuzione storicamente informata del repertorio mozartiano sarebbe di per sé encomiabile; non per nulla uno dei motti con cui la coppia sondriese sbandiera il proprio rigoroso ed esemplare approccio scientifico recita testualmente:
Per parlare di Mozart bisogna far parlare i manoscritti
Luca Bianchini
Per cui noi, assetati di conoscenza, ci apprestiamo a farlo; consultiamo come diligenti scolaretti le copie dei manoscritti mozartiani, constatando direttamente che, riguardo alle composizioni a cui si riferiscono i sondriesi, lo strumento a tastiera è in effetti sempre indicato come “cembalo”.
Prendiamo, ad esempio, l’autografo del quintetto K. 452 dove sulla prima pagina risulta leggibile:
Così come sull’autografo del concerto K. 449
e del K. 450:
Ma noi non ci accontentiamo; volendo far parlare i manoscritti mozartiani almeno come e quanto i due nostri bravi professori, non ci limitiamo alle battute iniziali ma ci addentriamo anche nelle successive e… oops!… ma guarda un po’ tu cosa riesce a fare il “cembalo” nell’Allegro del K. 452:
quel crescendo e quei forte e piano (questi ultimi presenti, tra l’altro, anche nelle battute iniziali dell’Allegro – v. prima immagine del K. 452 -) … con un clavicembalo?
Ma anche nell’Allegro del K. 449…
… e, scorrendo le pagine del manoscritto del concerto K. 450 (sempre in tempo Allegro)…
Come direbbe il buon Luca Giurato, “c’è qualquadra che non cosa”; quelle dinamiche, soprattutto in tempo veloce, saranno certamente possibili con un clavicembalo VIRTUALE (tanto più se in un midi file premiato in Canada) ma dal vivo e con un VERO clavicembalo d’epoca sarebbero praticamente ineseguibili. Sorge a questo punto spontanea una domanda: perché Mozart pretende dei crescendo e dei fp da un clavicembalo, quando perfino i somari sanno che su quest’ultimo non sono possibili repentine variazioni della dinamica mediante il tocco? Lo sapeva anche quel letteratone del Tommaseo, che nel suo Dizionario della lingua italiana, cominciato a stampare nel 1861, avverte il lettore:
PIANOFORTE e PIANFORTE, e anco PIANO, senz’ altro. S. m. (Mus.) [Ross.] Il più comune strumento di tasti che sia al giorno d’oggi. Esso è, come il clavicembalo da cui ha origine, a corde metalliche, ma messe in vibrazione da martelletti, i quali per l’impulso de’ tasti s’alzano e vi si scoccano contro. E siccome, quale è il grado d’impulsione che il sonatore sa imprimere ne’ tasti, tale segue la forza del suono nelle corrispondenti corde; per ciò il nome di Pianoforte, in contrapposto del cembalo sul quale il grado di forza non è variabile. […]
Nella ricerca di qualche documento in grado di fornirci una spiegazione plausibile ci soccorre una pubblicazione della musicologa Eva Badura-Skoda, da cui proponiamo questo interessante stralcio che non necessita di traduzione:
[…] We do not know how many pianos were built in the first half of the century in Vienna and it will not concern us here, but recent discoveries suggest that around 1750 probably nearly all of the organ and instrument makers living in the city tried to build an instrument with a hammer action.
Why was this situation not previously perceived correctly? The main reason is a terminological problem which has misled scholars in the past and continues to mislead many today, the modern and, therefore, anachronistic perception of the words cembalo, clavecin and harpsichord has led to many misconceptions. Cristofori had introduced his hammer action into a harpsichord case, which is why he always termed his instrument ‘cembalo’ (or ‘cimbalo’), sometimes adding adjectival phrases such as ‘che fa il piano e il forte’ (‘that plays quietly and strongly’, ‘con martelli’ (‘with hammers’), ‘con piano e forte’ (with soft and loud’) or ‘di martellati’ (‘capable of striking’). As far as Cristofori was concerned the instrument continued to be a ‘cembalo’ (usually the sources have ‘cimbalo’ rather than ‘cembalo’). Later Italian terms for the instrument were ‘nuovo cembalo’ (‘new harpsichord’), ‘cembalo con martellini’ (‘harpsichord with little hammers’), ‘cimbalo a martelli’ (‘harpsichord with hammers’), ‘cimbalo di piano e forte’ (‘harpsichord with soft and loud’), ‘cembali senza penne’ (‘harpsichords without quills’), ‘cembalo straordinario” (‘extraordinary harpsichord’) or simply ‘cembalo’. The use of the term “piano e forte’ as a substantive begins to make its appearance in Italian documents only towards the end of the eighteenth century. As late as 1850 an instruction manual was published in Naples on the subject of replacing the leather of ‘I martelli dei cembali’ (clearly meaning the hammers of pianos). Thus, it is hardly surprising that German and Austrian composers of Mozart’s time, whenever they used Italian terminology in their scores, continued to use the word ‘cembalo’ when designating the fortepiano. Mozart did this in his piano concertos, and Beethoven, for instance, in the second movement of the piano sonata in A op. 101, where one finds in the autograph the successive markings of ‘sul una corda’, ‘poco a poco tutte le corde’ and, in bar 21 of the second movement, ‘tutto il cembalo ma piano’( incidentally, the original edition – S. A. Steiner and Company – of op. 101 appeared under the general heading ‘Musée des clavecinistes’). Even Schubert, when he was a pupil of Salieri, made use of the Italian terminology in the single movement in B flat for piano trio (D28), first writing ‘Cembalo’ over the appropriate system before changing it to ‘Pianoforte’.
The term ‘piano’ or ‘pianoforte’ – the modern name for ‘cembalo con martelli’ (‘hammer-harpsichord’) – was completely unknown in the first three decades of the eighteenth century. According to a passage in the fifth volume of Zedler’s Universal-Lexicon, which appeared in Leipzig in 1733, the noun ‘Pianofort(e)’ was invented by Gottfried Silbermann in 1732. But it was not used until Frederick the Great of Prussia developed an enthusiasm for Silbermann’s pianos in the 1740s. Afterwards, German instrument builders introduced the new term slowly into the musical life of London and Paris. In south Germany, away from Berlin, it also took more than a decade before the adjectival formation ‘piano e forte’ was used as a noun. In Vienna, I have traced the first use of the word ‘fortepiano’ to an account book from March 1763 in the Hofkammer Archiv. The term ‘Fortipiano’ is mentioned here, and then a second time in May 1763, in connection with concert fees given to Johann Baptist Schmid for playing in the Burgtheater.
In France, the terms ‘clavecin à maillets’ (‘harpsichord with hammers’) or simply ‘clavecin’ were applied for a long time to the pianos; even in the nineteenth century the words ‘clavecinists’ and ‘pianists’ were still interchangeable. In Germany, before the terms ‘Kielflügel’ and ‘Hammerflügel’ came into use for distinguishing between a harpsichord with quills and one with hammers […] ‘Flügel mit und ohne Kiele’ […]
Il brano qui citato è tratto da Eva Badura-Skoda “The Viennese Fortepiano in The Eighteenth Century…” (da Music in Eighteenth-Century Austria a cura di David Wyn Jones) che procede con ulteriori considerazioni su questo tono.
Ci permettiamo di aggiungere alle definizioni di cui sopra anche quella dello stesso inventore italiano, Bartolomeo Cristofori: “gravicembalo col piano e (col) forte”, a conferma del fatto che (come documenta Eva Badura-Skoda), pur usufruendo della nuova meccanica a martelletti, il nuovo strumento venisse considerato comunque un cembalo.
Sempre dalle informazioni appena lette, emerge chiaramente che in Italia, durante tutto il XVIII secolo e per buona parte del XIX, col generico termine “cembalo” poteva essere indicato qualsiasi cordofono a tastiera d’uso corrente, e tale prassi era consueta anche per Mozart e i suoi contemporanei austro-tedeschi, protraendosi addirittura fino alla prima metà dell’Ottocento. Due esempi non da poco quelli citati dalla illustre studiosa: l’op. 101 di Beethoven e il Trio D 28 di Schubert per pianoforte, violino e violoncello. Vediamoli in dettaglio.
“Tutto il cembalo, ma piano”, nell’op. 101 di Beethoven
Il trio D28 di Franz Schubert (1812)
Dalla seguente immagine si può, inoltre, arguire come nell’editoria musicale viennese (l’edizione Haslinger è del 1846) fosse normale scrivere “composti per il Clavicembalo” persino nella pubblicazione di opere inconfondibilmente pianistiche come quelle di Franz Liszt. Anzi “Francesco”, visto che tutto il frontespizio è scritto in italiano, tradizionale lingua veicolare per la società colta della capitale asburgica.
Potremmo integrare questa già lunga carrellata terminologica con la definizione di “cembalo scrivano, ossia macchina da scrivere a tasti” applicata nel 1855 in un brevetto dell’inventore piemontese Giuseppe Ravizza. Essendo nato nel 1811, costui di cembali a penna doveva averne visti pochi o punti. E infatti la sua tastiera funzionava con un sistema di trasmissione a martelletti, non già a penna…
Proviamo ora, per dissipare qualsiasi residuo dubbio sull’argomento, a far parlare Mozart in persona per mezzo delle sue lettere.A tal proposito, ce n’è una famosa (Augusta, 17 ottobre 1777) in cui Wolfgang scrive al padre in termini entusiastici dei pianoforti “a scappamento” costruiti da Stein, il che ci offre un’idea assai precisa del feeling tra Mozart e lo strumento a martelli:
[…] Nun muß ich gleich beÿ die steinischen Piano forte anfangen. Ehe ich noch vom stein seiner arbeit etwas gesehen habe, waren mir die spättischen Clavier die liebsten; Nun muß ich aber den steinischen den vorzug lassen; denn sie dämpfen noch viell besser, als die Regensburger. wenn ich starck anschlage, ich mag den finger liegen lassen, oder aufheben, so ist halt der ton in dem augenblick vorbeÿ, da ich ihn hören ließ. Ich mag an die Claves kommen wie ich will, so wird der ton immer gleich seÿn. er wird nicht schebern, er wird nicht stärcker, nicht schwächer gehen, oder gar ausbleiben; mit einem wort, es ist alles gleich. es ist wahr, er giebt so ein Piano forte nicht unter 300 fl: aber seine Mühe und fleiß die er anwendet, ist nicht zu bezahlen. Seine instrumente haben besonders das vor andern eigen, daß sie mit auslösung gemacht sind. da giebt sich der hunderteste nicht damit ab. aber ohne auslösung ist es halt nicht möglich daß ein Piano forte nicht schebere oder nachklinge; seine hämmerl, wen man dieClaves anspielt, fallen, in den augenblick da sie an die saiten hinauf springen, wieder herab, man mag denClaves liegen lassen oder auslassen. […] ich habe hier und in München schon alle Meine 6 Sonaten recht oft auswendig gespiellt. […] die lezte ex D kommt auf die Pianforte vom stein unvergleichlich heraus. Die Machine wo man mit dem knie drückt, ist auch beÿ ihm besser gemacht, als beÿ den andern. ich darf es kaum anrühren, so geht es schon; und so bald man das knie nur ein wenig wegthut, so hört man nicht den mindesten nachklang.».
[…] Ora devo cominciare subito parlando del piano forte di Stein. Prima di aver visto gli strumenti costruiti da Stein, erano le tastiere di Späth ad essere le mie favorite, ma adesso devo dare la preferenza a quelle di Stein, giacché smorzano il suono molto meglio di quelle di Ratisbona. Quando pigio con forza, posso lasciare il dito sul tasto o toglierlo, ma comunque il suono si spegne nel momento stesso in cui l’ho fatto sentire. Posso toccare i tasti come voglio, il suono sarà sempre uguale. Non strascica, non è troppo forte né troppo debole e non è mai assente; in una parola, va sempre bene. È vero che non vende un tale piano forte per meno di 300 fiorini, ma la fatica e lo zelo che egli impiega sono impagabili. I suoi strumenti sono differenti da tutti gli altri in quanto hanno uno scappamento. Solo un costruttore su cento si occupa di questo problema. Ma senza scappamento è impossibile che un piano forte non strascichi o riecheggi. Quando si toccano i tasti, i martelletti dei suoi strumenti ricadono indietro subito dopo aver toccato le corde, sia che si tengano premuti i tasti, sia che li si rilasci. […] Ho già suonato parecchie volte a memoria le mie 6 sonate, qui e a Monaco. […] L’ultima, in re maggiore, risulta incomparabile sul pianforte di Stein. Anche il meccanismo che si preme con il ginocchio è realizzato da lui meglio che dagli altri. Basta appena toccarlo per farlo funzionare; e appena si allontana un po’ il ginocchio, non si sente il minimo eco.
(Da “Tutte le lettere di Mozart”. L’epistolario della famiglia Mozart – a cura di Marco Murara – Ed. Zecchini)
Dalla lettera si deduce che l’interesse di Mozart per il pianoforte risalisse a prima degli anni in cui scrisse le composizioni citate in precedenza (tutte nate nel 1784). Non è peraltro necessaria alcuna laurea per capire che, se in un suo brano scriveva “cembalo” secondo un’usanza “italiana” comune a quell’epoca, ma nel contempo affidava a questo strumento dei crescendo e dei fp, l’esecuzione al pianoforte di quel dato brano sia pienamente giustificata non solo dal punto di vista storico ma anche e soprattutto musicale. Se poi riteniamo ancor più corretto che l’esecuzione sia “storicamente informata”, lo strumento sarà un pianoforte d’epoca o una sua fedele riproduzione. D’altro canto le esecuzioni clavicembalistiche del repertorio qui in esame, anche se parzialmente giustificate dal punto di vista storico, non lo sarebbero del tutto da quello musicale, in quanto non rispetterebbero le dinamiche prescritte dal compositore. Sarebbero insomma un ripiego o un arrangiamento di retroguardia.
Se quindi è vero che i manoscritti parlano, è altrettanto vero che sarebbe corretto ascoltare tutto ciò che dicono, cosa che i coniugi Bianchini dimostrano di non saper fare. Dall’alquanto sommaria e superficiale lezione di filologia musicale che vorrebbero impartirci sembra emergere piuttosto un singolare metodo di esegesi à la carte, ovvero di sordità intermittente alquanto discutibile sotto il profilo etico.
Dopo aver cercato di insegnare ad Alexander Lonquich come componeva Mozart (maluccio), vorranno i Nostri fare altrettanto con Eva Badura-Skoda a proposito di cembali e fortepiani?
Per noi il caso può passare in giudicato: il “cembalo miracoloso” indicato da Mozart è in realtà un pianoforte storico e ci pare assai penoso che due sedicenti specialisti di Settecento (e di Mozart in particolare) non lo sappiano. Certo sarebbe altrettanto grave se invece fingessero di non saperlo, perché in tal caso mostrerebbero di essere in totale malafede.
Sorge a catena un’altrettanto spontanea seconda domanda: come mai Bianchini e Trombetta, che talvolta sul loro web ci propinano estasiati uno Scarlatti o un Luchesi eseguiti su pianoforte moderno da Emil Gilels o da Roberto Plano (musicisti coi fiocchi, beninteso), diventano all’improvviso puristi intransigenti quando si tratta di Mozart?
Noi, memori di come la figura del povero Amadé sia stata finora tratteggiata (o meglio, bistrattata) nei loro precedenti tomi, vediamo delinearsi in siffatte esternazioni pseudo filologiche una logica ampiamente collaudata, intrisa di cattiva fede e ipocrisia malcelata.
Dopo aver descritto Mozart come un compositore incapace, ignorante, copione e stilisticamente superato per la sua epoca, costoro cercano in tutti i modi di far credere al frastornato lettore che per Amadé lo strumento a tastiera ideale non possa essere altro che l’’antiquato cembalo’; il pianoforte, che meglio si addice ai suoi predecessori e contemporanei italiani (più capaci, brillanti e innovatori di lui), potrebbe far apparire troppo più progredita e accattivante del dovuto la musica del povero zoticone salisburghese, traendo così in inganno l’ingenuo ascoltatore già vittima di colossali frottole germanocentriche. Tentano in sostanza di rifilarci sottobanco le seguenti equazioni: obsoleto, banale, noioso, austro-tedesco = cembalo; attuale, innovativo, brillante, ITALIANO = pianoforte.
Ecco spuntare la loro coda di paglia: dal momento che negli autografi sta scritto “cembalo”, la volontà di Mozart – essi proclamano – dev’essere assolutamente rispettata e tutelata (vedi anche Ahimè n. 198).
Ed è proprio in questa ottica che i due Musicologi Alternativi affettano sempre di agire: loro AMANO Mozart! Ma in noi, commossi da cotanta professione d’amore, sorge ora spontanea una terza e ultima domanda; l’esatto rovescio di quella del Pisistrato dantesco (Purgatorio XV. 104-5): “Che farem noi a chi mal ne disira/ se quei che ci ama è per noi condannato?”.
4 Ottobre 2020 il 21:15
Ottimo studio, come sempre pieno di riferimenti ed illuminanti esempi.
Grazie.
5 Ottobre 2020 il 23:56
Riccardo Fiorentino
L’articolo è esauriente nel chiarire ciò che a quei cialtroni è oscuro. Aggiungerei solo questa osservazione: il fatto che il termine “cembalo” sia sopravvissuto addirittura fino a Ottocento inoltrato è senz’altro legato, credo, anche al fatto che il sostantivare gli avverbi “forte” e “piano” di cui è composto il nome dello strumento non poté essere cosa immediata, ma richiese del tempo: oggi appare naturale perché sentiamo il termine “pianoforte” già cristallizzato come sostantivo. Detto ciò, il pensiero va alle condizioni della società attuale che permette a persone della più becera ignoranza di trovare seguito e di scrivere libri. Ho toccato con mano più volte l’incompetenza dell’Imbianchino dimostrata tutte le volte che si è arrischiato a parlare di qualche argomento tecnico-musicale. Direi che in tutto questo la cosa più notevole è il bisogno assoluto, spasmodico, oltranzista e totale, di voler dimostrare una tesi FISSATA A PRIORI. A fronte di questa esigenza tutto rotola intorno, tutto si capovolge, ogni rivolgimento è possibile. Persino Bach, che lui chiamò, durante un dialogo col sottoscritto, in una ridicola dissertazione sulla “Fuga-Partimento” (!), “il Vivaldi di Eisenach”, persino Bach diventa uno scolaretto che ha potuto fare quel poco che ha fatto solo perché ebbe la ventura di studiare sui partimenti di scuola napoletana. Vero è che ormai questi signori sono giustamente sbeffeggiati e ridicolizzati un po’ dappertutto (rimangono arroccati in Gruppetti Fb dove si fanno sempre vedere compatti, stretti l’un l’altro in clan familiare), ma ciò che dà fastidio è la MALAFEDE. Agiscono come quegli avvocati-paglietta che non possono non sapere certe cose basilari, per quanto ignoranti siano, ma scrivono ai processi note di centinaia di pagine di falsità inutili sperando che il loro tutelato non si accorga della frode, che consiste nel tentativo di arraffare qualche parcella di quattro lire ingannando il cliente.
11 Ottobre 2020 il 22:01
Riccardo Fiorentino: “L’incompetenza dell’Imbianchino” fa risuonare echi addirittura brechtiani! Complimenti vivissimi.