Introduzione
“Sulle bufale asimmetriche, ossia la Legge di Brandolini”

L’Accademia della Bufala è onorata di ospitare sul proprio sito la pubblicazione in esclusiva di un saggio del Prof. Francesco Bellotto, studioso, docente e operatore teatrale di riconosciuta caratura internazionale (si veda il curriculum in calce). Oggetto della sua disamina sono le distorsioni narrative, le speculazioni arbitrarie e l’autentica officina di fake news con le quali i negazionisti Luca Bianchini e Anna Trombetta hanno tentato di screditare la paternità mozartiana del dramma per musica “Mitridate re di Ponto” KV 87.

Se la comunicazione moderna ci ha abituati agli effetti della Legge di Brandolini, secondo la quale “La quantità di energia necessaria per confutare una bufala è superiore di varie grandezze a quella impiegata per produrla”, è pur vero che non serve più di un assaggio a campione per giudicare della genuinità di quanto viene venduto sotto etichette commerciali ingannevoli quali “musicologia copernicana” e “nuova immagine di Mozart”.

Con altra metafora: postulare l’effetto retroattivo di una leggenda mediatica — in questo caso la pretesa fabbricazione ex nihilo di Mozart a vantaggio di un’agenda austro-pangermanica di cui si vogliono ravvisare le “prove” nell’agiografia risorgimentale o magari nella cinematografia nazista — è un processo identico alla creazione di cartamoneta da parte di una banda di falsari.

English version

Our Accademia della Bufala is proud to host on its website the exclusive publication of an essay by Prof. Francesco Bellotto, a scholar, teacher and theatre operator of recognized international standing (see his curriculum below). Subjects of his scrutiny are the narrative twists, the unsupported speculations and the veritable fake news factory implemented by Mozart deniers Luca Bianchini and Anna Trombetta in the attempt to discredit the authorship of the serious opera Mitridate re di Ponto KV 87.

If modern communication has accustomed us to the effects of Brandolini’s Law, according to which “The amount of energy needed to refute bullshit is an order of magnitude larger than is needed to produce it”, it is also true that no more than a sample tasting is needed to judge the genuineness of what is sold under misleading commercial labels such as “Copernican Musicology” or “Mozart’s New Image”.

With a different metaphor: postulating the retroactive effect of a media legend — in this case the purported fabrication ex nihilo of Mozart for the benefit of an Austro-Pan-Germanic agenda of which the “evidence” is sought in the Italian Risorgimento hagiography or even in the Nazi movie industry — it is a process identical to the creation of banknotes by a gang of counterfeiters.


MITRIDATE RESISTE AI VELENI
di Francesco Bellotto [1]

Si crede facilmente
a ciò che si ha bisogno di credere

marc Bloch

In tempi recenti mi è capitato di riprendere lo studio del Mitridate dietro la sollecitazione di un allievo tenore desideroso di meglio comparare le incarnazioni vocali del re di Ponto fra Quirino Gasparini (1767) e Mozart (1770). Argomento appassionante: in quella partitura giovanile Mozart ha affrontato la questione in modo assai interessante. Mia opinione è che l’operista in erba, senz’altro stimolato da un’agguerrita cerchia di collaboratori, maestri, estimatori e amici avesse intercettato le più aggiornate ed espressive tendenze drammaturgiche, dandone concreta e credibile attuazione. E lo aveva fatto con notevole tasso di originalità rispetto ai contemporanei, nonché con sbalorditiva capacità di assimilare e rielaborare.

Con curiosità ho dunque sfogliato il volume di Luca Bianchini e Anna Trombetta dal titolo Mozart in Italia [2], in cui gli autori si occupano specificamente del Mitridate da pagina 235 a 366. Terminata la lettura, avevo dapprima pensato di ignorare quelle 131 pagine, perché di fatto non offrono nulla di realmente utile alla miglior conoscenza del titolo. Ma ripensandoci, soprattutto dopo aver letto frasi come queste:

La penisola italiana era nella seconda metà del Settecento un laboratorio creativo all’avanguardia nel campo musicale. Un viaggio nel Bel Paese per un compositore equivaleva a un master o a un corso di specializzazione. Era un modo per aggiornarsi, venire a contatto con le ultime novità, arricchire le proprie conoscenze e appropriarsi di nuove idee. I più bravi riuscivano a rielaborare in modo originale la ricchezza tematica e armonica italiana, mentre gli altri si dovevano accontentare di mascherare le musiche e di scopiazzare senza aggiungere elementi innovativi, i Mozart tra questi.[3]

“Mozart in italia”, cit. p. 329

ho ritenuto che valesse la pena di dedicare un po’ di tempo a ragionare sulla questione. Oggigiorno, grazie soprattutto al funzionamento (malato) di alcune piattaforme social, il facile scandalismo e lo story-telling hanno una capacità di diffusione formidabile rispetto all’informazione scientifica, che per definizione è complessa, sfaccettata, si basa su documenti e di solito non “urla”, ma più modestamente “parla” ai suoi lettori. Se crediamo nel nostro lavoro e nelle sue finalità, è opportuno che i nostri allievi, il pubblico, i semplici appassionati possano reperire anche su questi canali contributi utili a capire perché certe ricostruzioni, ancorché a prima vista seducenti, siano ben altra cosa rispetto alla ricerca storica basata sulla concretezza dei documenti e sulla loro onesta interpretazione.

Tutta la sezione del citato volume dedicata al Mitridate non serve in realtà a descrivere l’opera, ristudiarla, illuminarne le caratteristiche, ma sembra avere un’unica finalità: demolirne il portato storico e artistico “dimostrando” sotto molteplici angolazioni che il 26 dicembre 1770 il giovane Amadé, coadiuvato da un padre disonesto e da una malevola cricca anti-italiana, avrebbe somministrato al pubblico del Regio Ducale di Milano un’opera malamente «scopiazzata». Tutti gabbati, dunque: il governatore della città, l’impresa, il pubblico, la stampa, i colleghi, i maestri Lampugnani e Sammartini e — naturalmente — due secoli e mezzo di ricerche, studi storici e filologici a firma di sprovveduti quali: Abert, Jahn, Einstein, Kunze, Freeman, Eisen, Wignall, etc. etc. Monumenti della ricerca storico-scientifica sui quali i due autori riversano i loro strali senza far economia di lazzi e derisioni.

Peccato che la loro tesi si fondi su argomenti capziosi e a dir poco arbitrari.[4]

Mi limiterò qui a pochi campioni significativi.

pp. 281-287

Fondandosi su una menzione dell’incipit in una lettera dei Mozart (BD 202) , gli autori sostengono che la Marcia strumentale introduttiva all’arrivo di Mitridate a Ninfea (N. 7) sarebbe nata a Bologna…

… il 4 agosto 1770, nella stessa tonalità, con lo stesso ritmo, lo stesso tempo, lo stesso accompagnamento, lo stesso organico e all’incirca la stessa melodia del pezzo di Gasparini. Leopold dovette rimanere affascinato a sfogliare per la prima volta il Mitridate di Torino e volle subito far sua la bella Marchia in RE dell’abate […] Solo di recente la Marchia completa è saltata fuori dal manoscritto di Lisbona e molti hanno gridato al miracolo, senza accorgersi che il pezzo si chiama in quel modo proprio perché confezionato sopra quello di Gasparini. […] Nella lettera del 4 agosto 1770 Mozart s’attribuì la Marchia di Gasparini scritta nel 1767 […]

op. cit., pP. 285-287

Occorre però osservare che:

  • I documenti dimostrano come molto difficilmente il 4 agosto Leopold avrebbe avuto interesse a sfogliare la partitura di Gasparini a preferenza di una qualsiasi altra opera seria. Infatti il 21 luglio Amadé scrive alla sorella che “il titolo dell’opera che hò da comporre per Milano non si sà ancora” e Leopold in una lettera successiva riferisce di aver ricevuto titolo, libretto dell’opera e nomi della compagnia di canto il 27 di luglio. I Mozart, ancora soggiornanti a Bologna, come avrebbero potuto prima del 4 agosto aver studiato e «scopiazzato» una partitura neppur ricevuta da Torino d’un titolo di cui in precedenza non immaginavano nemmeno l’esistenza? Secondo Bianchini e Trombetta, padre Martini “potrebbe” avergliela passata traendola dal proprio monumentale archivio; ma perché proprio quella?
  • Si adduce come prova del “furto” mascherato il fatto che il brano in oggetto è definito da Gasparini Marchia, e non Marcia o Marche, e che anche Mozart la definisce esattamente con lo stesso termine: Marchia, appunto. Ebbene, basterebbe un po’ di dimestichezza con qualche catalogo di biblioteca per vedere che la grafia Marchia è usata con regolarità in decine e decine di fonti del XVIII secolo, compresi alcuni autorevoli lessici a stampa: è intercambiabile con Marcia e non è caratteristica esclusiva di Gasparini, tutt’altro[5].
  • La cosa però più importante è che i due numeri, a dispetto di quanto pretendono gli autori, risultano palesemente diversi. E i punti di somiglianza invocati (tonalità, ritmo, tempo, accompagnamento, organico e “all’incirca la stessa melodia”) in verità nulla provano. La tonalità è comune, ma le marce dell’epoca erano spesso in Re maggiore perché scritte per strumenti con specifiche limitazioni di tonalità, ossia trombe e corni naturali. Il ritmo, poi, è del tutto diverso. Comune l’indicazione agogica “Maestoso”; ma una marcia di parata come questa, diversamente da una carica di cavalleria, cos’altro potrebbe essere? L’accompagnamento (parlando di struttura e ritmo armonico) è del tutto differente. Persino l’organico è altra cosa. La melodia, definita “all’incirca la stessa”, non è affatto tale; basta ad evidenziarlo la riproduzione dei rispettivi incipit.[6]
Gasparini
Mozart

Eppure ciò basta agli autori per sostenere che il 4 agosto 1770 la partitura di Gasparini fosse già sul tavolo dei falsari…

p. 341

Secondo i sullodati autori l’operazione Mitridate sarebbe oltretutto da leggere in chiave politica:

La scelta del libretto non era una prerogativa del compositore ma degli impresari, che consideravano da un lato la sua efficacia sul piano squisitamente musicale e dall’altro la sua valenza ideologica. Non fu un caso che, per l’apertura della stagione 1770-1771 del Ducale, fosse stato scelto il libretto di Mitridate re di Ponto, che […] esalta il coraggio dell’orgoglioso Farnace che rinuncia al potere promesso da Roma e decide di combattere per la sua patria […] . Ai due Salisburghesi, sconosciuti ai più e che poco si intendevano di italiano, fu rifilato proprio quel libretto contro l’Austria, quella “genìa altera” che pretendeva nel 1770 di togliere la libertà ai lombardi e per estensione a tutta l’Italia. Mitridate, che ai tempi contrastò per oltre trent’anni e con ogni mezzo la grandezza di Roma e le sue brame di conquista, è simbolo dell’ostinata determinazione che animava i patrioti milanesi nel 1770, e che sfocerà da lì a pochi decenni nei moti rivoluzionari e risorgimentali.

op. CIT., P. 291

Anche in questo caso si utilizza una bizzarra convinzione degli autori per avvalorare l’inadeguatezza di Mozart nell’occuparsi di questo soggetto, addirittura (con almeno cinquant’anni di anticipo) “risorgimentale”[7].

Occorre però osservare:

  1. È semplicemente falso che in quell’epoca gli impresari di un teatro di corte (di nomina politica) potessero decidere in autonomia i libretti e i soggetti da mettere in scena. Lo attestano tonnellate di rapporti di censura ed altri documenti. Se ciò non bastasse, si rilegga il classico studio di John Rosselli: «Questa intromissione [dell’autorità politica, ndr] operava a vari livelli d’una complessa struttura gerarchica. Al livello più alto era il sovrano […]. Questi non solo selezionava i palchettisti, ma sceglieva i soggetti, approvava i libretti, ed esigeva perfino meno arie e più pezzi concertati.»[8]
  2. Gli autori violentano il libretto, dal momento che descrivono Farnace come combattente a difesa della patria, quando invece è esattamente il traditore che introduce l’invasore straniero in Ninfea, salvo poi pentirsi nel finale; conversione che — e questa è davvero una questione interessante — era assente dalla tragedia di Racine.[9]
  3. Per pura logica, dunque: perché mai il Teatro di Corte e il governatore Firmian[10] avrebbero “rifilato” ai due ignari Mozart un’opera a detta di Bianchini e Trombetta antiaustriaca? E — sempre a lume di buon senso — perché mai Roma, simbolo preclaro dell’italianità nella tradizione del patriottismo erudito dall’Alighieri a Scipione Maffei e oltre, avrebbe dovuto rappresentare il nemico straniero proprio nel momento in cui Mitridate progetta l’invasione dell’Italia per riscattare la sconfitta subita da Pompeo?
  4. Purché lo si voglia, è sempre possibile trovare per un libretto d’opera una chiave di lettura politica. Ma al fine di non prendere cantonate è necessario attenersi al contesto storico. Nella stagione 1766-67 — quando il teatro della corte torinese ottiene il visto di censura per il nuovo libretto del suo poeta ufficiale Vittorio Amedeo Cigna-Santi — sul trono sabaudo siede dal 1730 Carlo Emanuele III. Nel corso del suo lunghissimo regno, “il Re Laborioso” aveva cambiato di schieramento geopolitico secondo la migliore tradizione di famiglia: alleato della coalizione francese nella guerra di successione polacca (1733-38), aveva conquistato militarmente la Lombardia austriaca intitolandosi effimero duca di Milano; ma nel 1741 si era efficacemente schierato con Maria Teresa d’Asburgo nella guerra di successione austriaca, ricavandone a pace conclusa (Aquisgrana 1748) cospicui allargamenti territoriali fino al Ticino, nonché il recupero di Nizza e Savoia dalla Francia. Dato e non concesso che il suo fortunato trasformismo si potesse paragonare a quello dell’antico sovrano del Ponto, in ultimo naufragato nella disfatta, si dia atto che fra Milano e Torino vigevano ormai da un quarto di secolo rapporti di solida alleanza e di buon vicinato. E se ciò non bastasse a delineare il quadro del controllo politico sul cartellone, si rammenta pure che — come d’uso — i due palcoscenici produssero sulle scene i loro Mitridate valendosi direttamente dei loro funzionari teatrali di massimo grado, i rispettivi poeti di corte Giuseppe Parini per il viceregno austriaco e il citato Cigna-Santi per il regno di Sardegna. E dalla prima torinese alla ripresa milanese di tre anni dopo l'”Argomento” del libretto (che è anche manifesto d’intenti e di posizionamento strategico) viene ristampato identico.

p. 343

Gli autori si indispettiscono con papà Leopold perché, all’indomani del debutto, scrive che

[…] in Italia tutte le persone ricevevano dei soprannomi e per esempio Hasse si chiamava Sassone, Galuppi Buranello, eccetera eccetera, e che il loro figlio lo chiamavano il Signor Cavaliere Filarmonico. Inutile dire che in nessun documento del tempo, in nessuna gazzetta, men che meno in un diario compare mai quel titolo come se l’era immaginato lui.

OP. CIT., P. 343

Ebbene, a dir la verità, Cavaliere Amadé Mozart lo era pubblicamente (Il Papa lo aveva insignito dello Speron d’oro — ordine equestre — proprio in quel 1770), e pure filarmonico, tant’è che nei tre libretti milanesi a stampa di quegli anni così viene definito: «Il Signor Cavaliere Amedeo Wolfgango Mozart, Accademico Filarmonico di Bologna» (1770, Mitridate), «Il Signor Cavaliere Amedeo Wolfango Mozart» (1771, Ascanio in Alba); «Il Sig. Cavaliere Amadeo Wolfango Mozart Accademico Filarmonico di Bologna, e di Verona» (1773, Lucio Silla).

pp. 246-247

Alla ricerca di analogie fra le due partiture, Bianchini e Trombetta pretendono di insegnarci:

L’opera lirica del Settecento è organizzata in forme musicali ben definite: sinfonia, interludi strumentali, arie, brani d’insieme, recitativi secchi e accompagnati, pezzi aperti e chiusi[11] che costituiscono le varie scene degli atti. Successioni di forme diverse caratterizzano un lavoro rispetto a un altro, ma anche quelle possono essere copiate, ad esempio, nei due Mitridate, le divisioni in scene e le strutture sono pressoché le stesse, tanto da far coincidere persino le descrizioni[12]. Le opere s’aprono entrambe con un recitativo secco alla Scena I, proseguono con un recitativo secco alla Scena II, poi c’è l’Aria di Aspasia, poi ancora un recitativo secco alla Scena III, e così via con opzioni pressoché analoghe per ogni Atto. […] La scelta delle forme musicali è un atto creativo e dipende in particolare dal musicista che è libero di interpretare le diverse situazioni offerte dal poeta. L’architettura del Mitridate dei Mozart s’appoggia in buona sostanza su quello di Gasparini. Le due opere combaciano a cominciare dalla sinfonia d’apertura, passando per i recitativi secchi, quelli accompagnati, le arie solistiche e i pezzi d’insieme, due in Gasparini come nei Mozart [sic] e, anche quelli, mascherati e realizzati nella stessa identica posizione, sino al quintetto finale a conclusione dell’intero dramma.

OP. CIT., P. 246-247

Anche qui l’argomento si basa su una premessa arbitraria. E per comprenderlo è sufficiente richiamare i fondamenti elementari della storia dell’opera. A quell’epoca l’architettura di un dramma musicale era prerogativa pressoché assoluta del librettista, che spessissimo lavorava in absentia o a distanza dal compositore. Il poeta, una volta individuato e concordato il soggetto con la committenza, disponeva la materia narrativa articolandola in atti e scene (la “selva”, o lo “scenario”), distribuendo secondo precise esigenze (incluse le famose “convenienze teatrali”, rispettose della gerarchia degli interpreti) le arie e gli altri pezzi chiusi, indicando attraverso l’impaginato e la versificazione cosa sarebbe stato recitativo e cosa no. Talvolta arrivava perfino a suggerire col metro e con lo stile dei recitativi cosa avrebbe potuto essere strumentato come accompagnato piuttosto che secco. Ci sono addirittura casi in cui il librettista dà al compositore indicazioni relative alla strumentazione.[13] È semplicemente inevitabile che due intonazioni distinte del medesimo libretto abbiano la medesima articolazione: non è dunque indizio di plagio, ma rivelatore del consueto modus operandi dei professionisti di quel sistema. Altrimenti dovremmo — verbigrazia — accusare di “furto” quelle decine e decine di compositori che dopo Domenico Sarro (1724), per un secolo hanno musicato e ri-musicato la Didone abbandonata di Metastasio conservandone lo scheletro e replicandone (seppur con sfumature diverse) la struttura architettonica. Infine è semplicemente ridicolo l’argomento che i due lavori, poiché iniziano ambedue con una Sinfonia e terminano con l’ensemble dei ruoli principali, siano plagio l’uno dell’altro. In tutto il vasto corpus dell’opera eroica settecentesca, come pure dei generi affini quali la serenata e l’oratorio, questa regola non patisce pressoché alcuna eccezione. La messa in serie delle occorrenze (la “regola”) è appunto ciò che consente allo studioso di valutare le eventuali eccezioni sotto il profilo esegetico; in mancanza di questa capacità nessuno può definirsi storico serio.

p. 240

La testimonianza del lavorio di copiatura, di riscrittura e dei tentativi di variare Gasparini è provata dai manoscritti del Mitridate di Mozart conservati nella Biblioteca Gallica [sic][14] di Parigi.

OP. CIT., P. 240

Occorre ribadirlo: nessuno ha mai voluto negare che Amadé conoscesse bene e avesse nelle orecchie il Mitridate di Gasparini. Né si può sostenere che la partitura non sia ricca di riferimenti intertestuali. Così come è sicuro che in quei mesi, nel suo viaggio tra le capitali della musica italiana, Amadé stesse incessantemente studiando, imparando, esercitandosi nella composizione secondo gli usi e le retoriche italiane. E non avrebbe potuto essere altrimenti per un seppur geniale esordiente. Ad esempio, come dimostrato anche dai recenti e documentati studi di Daniel Freeman, nella partitura del Mitridate di Mozart emergono elementi dell’influenza esercitata dalla Nitteti di Joseph Myslivečeck, con diversi punti di contatto che lasciano intendere come il più maturo compositore boemo e il quattordicenne Amadé potrebbero aver discusso in dettaglio concreti problemi di composizione nei loro frequenti e documentati incontri bolognesi del 1770. Interessantissimo in questo senso il processo genetico di «Lungi da te» (aria per Sifare, N.13) che prenderebbe le mosse da «Se la cagion potete» (aria per Sammete, Atto II, dopo la scena 9). Myslivečeck stava dando alle scene bolognesi la sua Nitteti, e nell’estate 1770 Leopold e Amadé – pure loro a Bologna — pensavano che l’opera milanese di dicembre sarebbe stata appunto una Nitteti, che invece l’impresa attribuì come secondo titolo a Carlo Monza. È notizia ben accreditata dalla bibliografia storica e ulteriormente arricchita (già dal 1995!) dalla tesi di dottorato di James Wignall: Mozart, Guglielmo d’Ettore and the Composition of Mitridate (K. 87/74a).

Wignall aveva esaminato a fondo le stesse carte citate da Bianchini e Trombetta assieme alle poche fonti dell’opera superstiti in autografo. Ebbene, già 37 anni fa egli dimostrava, riordinando cronologicamente gli schizzi di «Se di lauri» (aria d’ingresso del protagonista, con vistosissime omologie rispetto al modello gaspariniano), che il processo genetico seguiva direzione inversa rispetto a quanto sostenuto da Bianchini e Trombetta. In sintesi: Mozart stese una prima versione dell’opera e poi, attraverso almeno quattro stadi successivi, ne attenuò le parti musicalmente più originali per avvicinarsi gradualmente al dettato di Gasparini.

Esattamente l’opposto delle conclusioni dei due più moderni esegeti, che guardano al lavoro di Amadé come a un gigantesco “camuffamento” del modello, messo in atto per non destare sospetti. Non prendono nemmeno in considerazione le deduzioni documentate da Wignall, rigettandone il lavoro senza però fornire i motivi secondo i quali lo schema del processo genetico enucleato dallo studioso americano sarebbe superato. Semplicemente si sostiene che:

[Wignall] pretende che sia stato D’Ettore a obbligare Mozart a riscrivere almeno cinque volte Se di lauri, quando invece è Leopold che prova ripetutamente a mascherare il pezzo di Gasparini.

OP. CIT., P. 291

Invece, sempre grazie a Wignall e a una serie di documenti per la prima volta da lui individuati e trascritti nel ’95, sappiamo bene perché Mozart riscrive diversi passi dell’opera: il tenore siciliano D’Ettore (l’unico della compagnia che aveva cantato anche nell’intonazione del 1767) si mostra diffidente nei confronti del ragazzino-compositore; arriverà tardi alle prove, reduce da una malattia (morirà un anno dopo), si farà accorciare le sue arie, cercherà di demolire a priori il lavoro di Wolfgang tentando addirittura di convincere la collega Bernasconi a sostituire di peso le arie nuove con quelle vecchie di Gasparini. Cosa che invece la collega, dimostrando maggior apertura e forse animata da scrupolo etico verso la committenza, ricusa di fare. Da Leopold abbiamo la testimonianza epistolare delle ostilità patite durante la composizione e le prove, e comprensibilmente. Dove mai si era visto l’affidamento a un quattordicenne straniero d’un titolo d’opera seria in un teatro italiano di primissima sfera? Era sicuramente un azzardo senza precedenti. La “congiura” del D’Ettore riuscì solo parzialmente: in tutta la partitura mozartiana su 25 numeri solo due arie possono veramente definirsi precisi ricalchi della partitura di Gasparini, e ambedue furono scritte per il primo tenore: la prima (quella più sopra citata) e l’ultima, «Vado incontro al fato estremo», N. 20. Per le altre tre arie del ruolo, Mozart finì per spuntarla sul protagonista riluttante. L’aver sostituito e così evidentemente “gasparinizzato” l’esordio e il finale sembra proprio il frutto di una mediazione diplomatica col tenore: l’impresa offre soddisfazione al cantante lasciandogli i momenti topici di presentazione e di commiato mentre difende il lavoro di Wolfgang nel suo disegno generale, conservando il resto.

In tutto questo, gli autori parlano del D’Ettore come l’unico cantante attivo per smascherare una vera e propria “truffa” (termine ipervalutativo usato a pagina 355). Viceversa sfugge loro un dato di elementare evidenza: quel potere negoziale degli interpreti vocali nei confronti del compositore e dell’impresa teatrale che talora si concretava in richieste esorbitanti, mille volte satireggiate per tutto il corso del Settecento nella pubblicistica e persino nei libretti di opera buffa.[15] Un caso ben documentato riguarda il celebre castrato Farinelli in occasione di una ripresa ferrarese (1731) dell’Artaserse di Leonardo Vinci su testo di Metastasio. Dapprima Farinelli propone, benché senza esito, di sostituire in blocco il recitativo dell’Artaserse di Vinci con quello dell’omonima partitura di Hasse, da lui cantata a Venezia l’anno precedente; poi riesce comunque ad imporre l’inserzione di non meno di cinque arie di propria scelta (“arie di baule”), fra le quali una proveniente, con testo stravolto, dall’Innocenza giustificata di Orlandini, l’opera che aveva appena finito di interpretare a Fano. Indici di un’umanissima volontà di risparmiar fatica, o forse del desiderio di ripetere un successo già ottenuto senza rischiare il noto per l’ignoto.[16]

Sui recitativi

Gli autori dedicano molte pagine del loro lavoro alla ricerca di punti di somiglianza fra i recitativi di Mozart e quelli di Gasparini. Anche qui non fanno che scoprire l’acqua calda: come detto, è da molti decenni che la bibliografia scientifica più accreditata ribadisce come il giovanissimo autore avesse nelle orecchie il modello del compositore bergamasco (e non solo di quello). Dunque perfettamente logico che alcuni passi, raccattati qua e là senza metodo, si somiglino. Certo è che se per dimostrare la somiglianza si cambia il ritmo raddoppiando o dimezzando i valori (p. 247), si trasportano le tonalità (p. 247 e sgg.), o si dice che là dove Gasparini sale melodicamente lì Mozart discende per mascherare il plagio (p. 248), allora è un altro paio di maniche[17]. Si arriva in tal modo a forzare marchianamente il dato testuale sì che, ad esempio, per Bianchini e Trombetta queste battute di Gasparini:

sarebbero state “rubate” da Mozart:

Peggio ancora: per far tornare ulteriormente i conti nell’esempio precedente, Bianchini e Trombetta spostano pure le stanghette di battuta: secondo loro [p. 250] la sillaba «cer» di «incerta» a misura 5 (in Mozart) risulta in battere proprio come in Gasparini, ma semplicemente perché la loro trascrizione è manipolata.

Si permettono poi di giudicare peggiorative — secondo imperscrutabili categorie estetiche — le scelte prosodiche di Mozart. Sempre secondo loro, aver alterato l’incipit dell’aria conclusiva di Gasparini:

in questo modo:

collocando cioè la sinalefe fra la terza e la quarta sillaba significa non capire che qui «Gasparini aveva previsto due note per le sillabe “-do”, di “vado”, e “in-”, di “incontro”, separandole per significare la scelta ponderata di Mitridate d’affrontare il fato.» [p. 303] Ecco come un’opinione personale — del tutto gratuita — diviene argomento denigratorio. Volendo, si potrebbe invece persino sostenere che Mozart adotta questa scelta per conservare il salto do-la, così accentando più decisamente la parola «incòntro». Insomma, quod gratis asseritur gratis negatur, se volessimo scomodare Christopher Hitchens. Stessa cosa quando Mozart preferisce appoggiature ascendenti a quelle discendenti di Gasparini [p. 300 e 304]. Più efficaci, dicono gli autori: e perché mai?

Da segnalare infine che a pagina 242, parlando dei recitativi mozartiani, i due autori affermano: «All’interno delle scene, […] può succedere che le note, il timbro dello strumento e della voce, […] siano plagiati esattamente come nell’originale». Trattandosi di recitativi secchi e di basso continuo c’è da chiedersi come diamine avrebbe potuto essere differente il «timbro dello strumento», o meglio: degli strumenti della sezione di continuo.

Per concludere

Si potrebbe davvero continuare a lungo. Il libro è un’autentica summa di forzature come quelle campionate in precedenza; tuttavia chi avrà avuto la pazienza di leggere fin qui potrà in qualche modo mettersi sull’avviso: ciò che residua dalla lettura delle pagine sul Mitridate non è un nuovo, rivoluzionario, ritratto storico-critico di Mozart ai suoi debutti italiani. Piuttosto è la vivida (ennesima) dimostrazione di come ogni revisionismo ideologico, per reggersi impiedi bene o male, debba necessariamente negare la verità dei fatti documentati e inventarne altri ad arbitrio, fra l’altro oscurando con iperbolico artificio ciò che è ben più semplice ed evidente in natura. Prima si è evocato il rasoio di Hitchens, ma non farebbe male tener ben presente anche quello di Occam…

La “revisione” di risultati raggiunti in precedenza, operazione sempre lecita e anzi necessaria nel lavoro storiografico, è altra cosa dal “revisionismo” alla maniera di Bianchini e Trombetta. In questo caso si potrebbe parlare di “ipercriticismo” o “paracriticismo” distruttivo; per non dire semplicemente “negazionismo”, giacché le conclusioni a cui si desidera giungere sembrano già determinate prima ancora di intraprendere la ricerca sulle fonti e i documenti. Con l’inevitabile corollario di dover dichiarare apocrifi o non fededegni quelli che non collimano col teorema di partenza.

In buona sostanza: usare il Mitridate KV 87al fine di avvalorare una volta di più l’idea della “fabbricazione” ex nihilo della leggenda-Mozart a vantaggio di un’agenda pangermanica significa semplicemente voler avvelenare i pozzi della storiografia. Ma il Re del Ponto di veleni era gran delibatore, notoriamente immunizzato contro i loro malefici effetti. Ecco perché, nella speranza di farmi perdonare, concludo consigliando la lettura di un’opera fondamentale, ispirata al sapiente monarca e stampata — non par vero — nella città dell’amatissima Alma Mater.


[1] Ringrazio sentitamente Carlo Vitali per la pazienza con cui ha raccolto queste annotazioni, contribuendo con grande competenza e partecipata passione alla loro stesura.

[2] Tricase, YouCanPrint, 2021.

[3] Mozart in Italia, cit., p. 329.

[4] Ad analoghe conclusioni giunge Cliff Eisen in una concisa ma eloquente recensione del volume in oggetto consultabile qui in versione italiana e qui in lingua originale.

[5] A puro titolo di esempio, Il gran dizzionario [sic] universale & perfetto, diviso in III parti (a cura di Matthias von Erberg), Norimberga, Endter, 1710, offre sotto il lemma “Marchia” le seguenti definizioni ed esempi tradotti: “Marche, marche d’armée. Der Marsch/Aufbruch […] L’esse[r]cito è in marchia. L’armée est en marche. Die Armee ist im Aufbruch”. Pure la nona edizione accresciuta del Calepinus septem linguarum, hoc est lexicon latinum […] di Giacomo Facciolati (Venezia e Bassano, Gatti-Remondini, 1778), che alla voce “Itinerarium” traduce “Itinerarium sonare lituos jubet” (Ammiano Marcellino, Rerum gestarum XXIV/1) con “suonar la marchia”, in piena continuità con le edizioni precedenti (1726, ’46, ’58).

[6] Si ringraziano la De Sono Associazione Musica e il Dr. Luca Mortarotti per per aver gentilmente messo a disposizione la riproduzione della fonte.

[7] Fantasmagoria sullo stesso registro già utilizzato nel primo volume di Mozart: la caduta degli dei, Tricase, YouCanPrint, 2016 (a p. 22), dove si riscrive la storia del melodramma italiano da Cimarosa a Verdi con questi argomenti: “Non per nulla le Società carbonare italiane […] nacquero presso i teatri e i Conservatori di musica. Era là che si cercava eroicamente di salvaguardare la cultura italiana dai soprusi degli Asburgo e dei Borbone”.

[8] L’impresario d’opera, Torino, Edt, 1985, p. 79.

[9] V. in proposito Francesco Bellotto, Una fonte librettistica veneziana per il Mitridate di Mozart, in: Musica di ieri esperienza d’oggi – Ventidue studi per Paolo Fabbri, Firenze, Olschki, p. 126.

[10] Tutta la biografia e la carriera di Carlo Gottardo, conte di Firmian, cozzano frontalmente con tali ipotesi fantastoriche: «Seguendo il modello dei Paesi Bassi austriaci, il ministro plenipotenziario a Milano e vicegovernatore di Mantova — queste le cariche ricoperte dal Firmian — era di fatto la longa manus di Vienna nella Lombardia (formalmente governata da un arciduca, temporaneamente rappresentato da Francesco III d’Este duca di Modena). L’ambito d’intervento del ministro plenipotenziario, privato dei suoi poteri in campo giudiziario in favore del consultore del governo di recente istituzione, è rilevabile dalla corrispondenza bisettimanale tra Vienna e Milano: il Firmian è in sostanza il destinatario delle direttive”. (Elisabeth Garms-Cornides, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 48, 1997).

[11] Non risulta che la letteratura operistica coeva attesti forme aperte, termine normalmente riferibile a ben altri contesti.

[12] Con “descrizioni” i due autori sembrano intendere le didascalie scenografiche, che in realtà coincidono semplicemente perché il libretto musicato è il medesimo.

[13] Giusto per esempio, se ne rintraccia un caso bellissimo in un manoscritto di Apostolo Zeno conservato alla Marciana: in un’aria di Engelberta (1708) il poeta prescrive al compositore Andrea Fiorè l’uso del flauto concertante.

[14] Rectius: Bibliothèque Nationale de France, di cui “Gallica” in verità rappresenta l’interfaccia telematica per l’accesso ai cataloghi e alle risorse digitalizzate.

[15] Un’ampia antologia si può leggere ne La cantante e l’impresario e altri metamelodrammi (a cura di Francesca Savoia), Milano, Costa & Nolan, 1988.

[16] V. Carlo Vitali, Bajazet o Tamerlano?, ne “La Fenice prima dell’opera”, n. 6 (2007), pp. 63-78.

[17] Su questo aspetto rimandiamo a quanto scrive con esemplare chiarezza Cliff Eisen nella sua recensione citata supra (v. n. 4): “In any case, in discussing what was and wasn’t possible with respect to rhythms and harmonic and melodic progressions, their [di Bianchini e Trombetta] mathematical reasoning is specious. They don’t sufficiently take into account conventions of the time or the demands of Italian prosody. There was not an infinite possibilities of next notes, or next chords, or next rhythms, as they would have us believe. And this simply serves to undermine, rather than reinforce, their argument.”