E questa sarebbe una ricerca? Due tomi su Mozart imbevuti d’odio e rancore

di Mirko Schipilliti

Una delle cose che i nostri bravi maestri e professori si sono sempre premurati di insegnarci è la stesura di una saggia e oculata bibliografia per ogni articolo scientifico, libro o tesi, con annesso apparato di note, opportunamente vagliata e analizzata. Diciamo così, giusto per dimostrare di sapere di che stiamo parlando. L’utilissimo manuale di Carlo Fiore cita saggiamente la massima di Beadiquez che ci mette bene in guardia raccomandandoci che “redigere una bibliografia è una prassi di cui si parla poco, tranne quando uno studente viene ‘condannato’ a farne una per la sua tesi – compito del quale si alleggerirebbe volentieri demandandolo, sia nei contenuti che nella forma, al bibliotecario” (M. Beadiquez, Guide de bibliographie générale. Meéthodologie et pratique, K.G. Saur, München-London-New York-Paris, 1989, in Carlo Fiore, Preparare e scrivere la tesi in Musica, Milano, R.C.S. , 2000, p. 121).

Nei due faticosi tomi Mozart – La caduta degli dei di Luca Bianchini e Anna Trombetta, che continuano a far rizzare i capelli ai più studiosi, gli autori affermano che “i musicologi non devono basarsi su giudizi personali per definire un autore romantico, preromantico o classico, ma piuttosto riferirsi a dati oggettivi che si ricavano dalle fonti” (vol. I, .29). Ciò è quindi ben diverso dal filtrare notizie e dati proponendoli come dogmi. Il Duo vanta nuovi apporti a dir loro “risultati di oltre vent’anni di studi” (vol. I, p. 419), rassicurandoci di un “lavoro preparatorio” (vol. II, p. 131) per questa “biografia critica” (Prefazione). Non è tutto oro quello che luccica, e la fluviale bibliografia che ci propongono (sostanzialmente la stessa per entrambi i tomi, stranamente) non è quello che sembra, riaccendendo il nostro sacrosanto e doveroso diritto di critica.

Ce n’è per tutti i gusti. A cominciare dal dileggio a cui è sottoposto Mozart, che si gongola di una considerazione sul genio attribuita a Mayr: “ci tocca ammettere che Johan Simon Mayr ha ragione, quando afferma che ‘il genio in natura non esiste’. E Mozart non fa eccezione” (Vol. I, pag 171). E da dove viene questa perla del nostro italiano? Starà forse nella sua Dissertazione sul genio e sulla composizione? Chissà.

Da una rapida occhiata manca innanzitutto uno dei fondamentali saggi sul teatro di Mozart, dovuto a Stefan Kunze, Il teatro di Mozart (Venezia, Marsilio, 1990). Se chi scrive quasi 1000 pagine su Mozart non lo conosce è un problema veramente molto grave. Diciamo pure da mettersi le mani nei capelli.

Si ama riprendere la famosa e storica monografia mozartiana dell’Abert in due volumi. A proposito dell’incipit della Sonata di Clementi op. 24 n. 2 citato nell’ouverture del Flauto magico il nostro Duo ci ricorda polemicamente che “la maggior parte dei biografi mozartiani cerca di minimizzare la scandalosa somiglianza tra i due pezzi. Abert la cita di sfuggita ma solo in nota!” (vol. II, p. 432 e vol. I, p. 380). Falso: Abert la cita nel testo, non in nota (Abert, vol. I, p. 799). L’avranno letta? Si acuisce il nostro sospetto, perché c’è dell’altro. Analizzando meglio il contesto, dobbiamo aggiungere che sapevamo (tutti noi) anche che il soggetto della fuga per due pianoforti in do minore K. 426 fosse analogo a quello del secondo brano del balletto di Joseph Starzer (che Mozart conobbe personalmente) Les Horaces et les Curiaces (Vienna, 1774), come citato da Abert (Abert, Mozart, vol. II, p. 142), ma questa volta il Duo salta la questione a piè pari, cioè non ne parla affatto nei tomi, nonostante sarebbe stato vero pane per i loro denti affilatissimi, il che fa pensare che non abbiano neppure sfogliato bene questa storica monografia. Incoerenti stranezze?

Al nostro Duo piace sostenere che il nazismo ha creato il mito di Mozart e del classicismo offuscando i compositori italiani, ma quando bisogna per necessità di cose citare Theodor Anton Henseler in quanto autore dei primi studi su Andrea Luchesi – ebbene sì sotto il nazismo – egli viene nominato solo due volte e pure messo un po’ in disparte, limitandosi a chiamare il suo studio sull’italiano solo “coraggioso saggio degli anni Trenta” (vol. I, p. 31, n. 76), ma senza riportarne il titolo, né tantomeno elencarlo in bibliografia. Saggio che peraltro sarebbe stato utile alla loro causa perdente (Andrea Luchesi, der letzte Bonner Hofkapellmeister zur Zeit der jungen Beethoven, “Andrea Luchesi, l’ultimo Kapellmeister di Bonn al tempo del giovane Beethoven”, in «Bonner Geschichtsblätter», 1, 1937). Povero Henseler.

Rincarando la dose persino con Gluck, il Duo sostiene che ”Gluck era stato per quattro anni allievo di Sammartini, anche se di lui la critica tedesca ‘non si vuole occupare perché non le fa comodo’” (vol. I, p. 24), non conoscendo evidentemente il saggio del famoso musicologo monacense Alfred Einstein su Gluck, del 1936, che non compare infatti nella corpulenta bibliografia (Einstein, Gluck, Milano, Bocca, 1946, ristampato da I Dioscuri, Genova, 1990).

Fra i testi che mancano all’appello, nell’elogio sperticato dei compositori italiani dell’epoca, proviamo (sempre noi) a mettere a fuoco quel mondo per un attimo, e accendiamo una luce su Beaumarchais e Salieri, mito quest’ultimo dei nostri scrittori. Del resto, inneggiare al talento degli italiani dell’epoca per mera convenienza, non giova a tutte le valutazioni che dovrebbe fare un musicologo attento e perspicace. È comodo quindi ricordare che “Beaumarchais, dopo l’insuccesso viennese delle Nozze di Figaro, non volle chiamare il salisburghese a mettere in musica il Tarare, ben più rivoluzionario delle Nozze, ma Antonio Salieri” (vol. I, p. 55), meno opportuno riferire l’idea più generale che lo stesso Beaumarchais aveva dei musicisti italiani, rivelata proprio a Salieri in una lettera sui successi di Tarare a Parigi, commentando duramente il Théodore à Venise con musica di Paisiello e gli italiani tutti: ”Non posso – dice Beaumarchais – veder l’arte degradata così, senza dolermi sulla follia dei compositori italiani. Non c’è buonsenso in quella musica” (I. F. von Mosel, Vita e opere di Salieri, Vienna, F.B. Wallishausser, 1827, in Della Corte, Un italiano all’estero. Antonio Salieri, Torino, Paravia, 1936, pp. 171-172). Evidentemente non tutti, all’epoca, la pensavano come il nostro Duo, che tralascia questi testi. Troppo di nicchia? La musicologia non dovrebbe nemmeno essere una partita di calcio, ma vivere alla ricerca di un’obiettiva distanza da pregiudizi.

Ma vediamo il povero J. S. Bach, anch’esso gettato nella rete di sotterfugi. Il Duo giudica non autentica la celebre Toccata e fuga in re minore BWV 565: “A dispetto di sostanziali smentite, le creazioni più celebrate degli autori famosi, prima e dopo Bach, continuano a essere loro attribuite, come la celeberrima Toccata e fuga in re minore… Il lavoro potrebbe essere stato composto da un contemporaneo di Bach“ (vol. I, p. 377). “A dispetto di sostanziali smentite”, scrivono. Sostanziali? E quali? Si dice e non dice, citando a proprio piacimento le tesi un po’ datate dei noti studiosi Peter Williams e Norman Carrel senza darne però alcun riferimento bibliografico (vecchi testi?), e si tralascia per pigrizia o ignoranza invece l’ultimo e recente importante saggio di Christoph Wolff su Bach, dove è ben spiegato come “la Toccata in re minore, BWV 565, è un esempio illuminante dell’audacia virtuosistica che caratterizza il giovane Bach… Il brano, nonostante sia conservato solo in copie molto più tarde, reca l’impronta di un pezzo giovanile e sfrenato… Tenendo conto del fatto che l’organo di Arnstadt era privo di registri manualiter a sedici piedi, il raddoppio all’ottava costituisce una soluzione ingegnosa per colmare questa mancanza e creare l’effetto sono di un organo pleno, che richiede specificatamente i sedici piedi … le trame figurative rimangono notevolmente a fuoco; possono infatti venir ridotte a un’unica idea dominante, il motivo principale che apre il lavoro e, con la sua inversione, costruisce la base di una serie di variazioni continue“ (Wolff, Johann Sebastian Bach, La scienza della musica, Milano, Bompiani, 2003, p. 89). Ci avevate mai pensato?

Troviamo poi l’impiego oculatamente filtrato di testi ancorché citati. Per il nostro Duo “HMB (Haydn-Mozart-Beethoven, sic!) non erano i preferiti a Vienna dagli Asburgo, perché s’è visto che Giuseppe II anteponeva la musica italiana a quella di Haydn e Mozart. Suo Maestro di cappella era Antonio Salieri”, e che “il genere cosiddetto ‘classico viennese’, non dovette piacere nemmeno lì, nella capitale dell’impero, al viennese per eccellenza Giuseppe II” (vol. I, p. 20). Falso, falso, ma repetita iuvant, evidentemente. Su Mozart diretto successore di Gluck come compositore da camera nominato proprio dall’imperatore Giuseppe II esiste un successivo memorandum del 1792 che ribadisce che “il defunto Hofkompositor Mozart fu preso a servizio della corte espressamente per evitare che un artista di tanto genio fosse costretto a cercarsi da vivere all’estero”. Ce ne parla Solomon, fra i massimi studiosi, in Mozart (Milano, Mondadori, p. 390). Se ne cita il libro, d’accordo, ma si censurano passaggi significativi come questo. Determinanti.

Nella demolizione che il nostro Duo propone del Requiem, sarebbe stato utile studiare il bel saggio di Ernesto Napolitano Mozart. Verso il Requiem (Torino, Einaudi, 2004). Il libro figura nella bibliografia del II volume, ma se ne riportano in modo confuso solo due citazioni irrisorie, la prima inesistente nel testo originale (nota n. 1226 – ebbene sì milleduecentoventisei – vol. I, p. 68, che in realtà nell’indice è invece indicata a p. 69), la seconda in realtà citazione dell’autore che va riferita alla prefazione al Requiem di L. Nowak nella Neue-Mozart-Ausgabe (vol. II, p. 70), e siccome bisogna fare numero – come avrete notato – si inserisce il titolo anche nel volume I, ma senza mai citarlo.

Anche Ballola torna utile a proposito dei presunti plagi. “Ha scritto – riporta il Duo – che ‘se fosse vissuto ai nostri giorni [Mozart] avrebbe dovuto passare molto del suo tempo, per i suoi plagi, in un aula di Pretura” (vol. I, p. 380), ma viene omesso il riferimento bibliografico: sarà il suo libro citato in bibliografia?

Grandi assenti sono poi i celebri saggi di Massimo Mila Lettura del Flauto magico, Lettura di Le Nozze di Figaro e Lettura di Don Giovanni, pubblicati da Einaudi, tanto utili quanto esclusi. Aggiungiamo anche che suona infine contraddittorio e ambivalente scagliarsi attraverso i tomi contro tutta la musicologia imperante che sta dalla parte opposta e ritenuta neonazista, per poi farne uso indiscriminatamente, per farla breve.

Ma continuiamo pure a dare i numeri. Infatti, l’autentico coup de théâtre bibliografico arriva impietoso riprendendo i recenti saggi di Sandro Cappelletto su Mozart, perché con artificio si offrono deliranti interpretazioni di commenti altrui. Il libro I quartetti per archi di Mozart. Alla ricerca di un’armonia possibile (Cappelletto, Milano, Il Saggiatore, 2016) viene citato fino all’inverosimile come “Cappelletto, 2016” nelle note a piè di pagina a partire dalle pagine 69 e 92 del volume II ma indicandone il titolo solo a pagina 83 e senza riportarlo in nessuna bibliografia dei due volumoni. Prima ancora, da pag, 78, si cita un “Cappelletto, 2006” anch’esso ipercitato ma irreperibile nei testi (sarà verosimilmente il suo libro Mozart la notte delle dissonanze, Torino, EDT, 2006?). Che confusione! Ma leggiamo attentamente: “Sandro Cappelletto immagina un baule dal quale Mozart pescava all’occorrenza ‘temi, motivi, frammenti appuntati e messi da parte’. Gli sarebbero tornati utili, compresi i pezzi di altri autori, in caso gli fosse mancata l’ispirazione. Ne fa accenno lo stesso Wolfgang in alcune lettere alla sorella scritte nel 1787”. E riportano Mozart: “Forse non saprai che Sua maestà l’imperatore mi ha ora preso al suo servizio. Sono sicuro che questa notizia ti sarà certamente gradita. Ti prego, mandami al più presto la cassetta con le mie partiture” (vol. II, pp. 104-105). Il baule di Cappelletto inteso in senso figurato si è dunque trasformato nella cassetta della lettera di Mozart. L’immaginazione che diventa realtà. Fantastico.

Sulla surrettizia rielaborazione di quanto scritto invece sempre da Cappelletto – alterandone i significati originari fino a distorcerli – a proposito del quartetto K. 80, è stato già ampiamente riferito in un precedente Ahimè, a cui rimandiamo il lettore. Fatto gravissimo. Precisiamo solo che la manipolazione delle idee altrui per propria convenienza è un procedimento truffaldino e infamante, che annulla l’identità spirituale e culturale dell’altro, ancor di più quando lo si vuol mascherare a priori, mettendo le mani avanti, come nella profetica Prefazione: “Di ognuna delle quasi 2000 citazioni collezionate”, scrive il Duo – ma anche qui i conti non tornano, perché ci sono 1010 citazioni nel primo tomo e 1506 nel secondo, totale 2516, duemilacinquecentosedici! – “segnaliamo le fonti, per consentirne al lettore l’approfondimento“. Addirittura. È così che lavorava la dittatura nazista. Arbeit macht frei (“Il lavoro rende liberi”) era scritto all’ingresso di numerosi lager, per poi finire assassinati indegnamente.

È dunque affidabile un libro scritto così? E che razza di ricerca musicologica sarebbe questa?

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