L’ora della capra o l’illustre idiota

di Carlo Vitali

Hitsuji no koku: “l’ora della Capra” secondo il computo tradizionale giapponese; dura dalle 13:00 alle 15:00 e precede quella del tramonto.

Se oggi qualcuno definisse i professori Bianchini e Trombetta “due illustri idioti”, non avrebbero costoro una ragione di dolersi, e magari di querelare il loro zotico oppositore? Certamente sì, perché siamo nel 2017 e nella semantica dell’italiano corrente il sintagma si può solo interpretare come “notoriamente affetti da grave deficit intellettivo”. Se invece si volesse affermare che i suddetti Autori, al di fuori della loro professione di musicologi illustri, ignorano determinate branche dello scibile umano, non sarebbe che un’ovvia constatazione circa i limiti umani. Chi tra i viventi potrebbe chiamarsene fuori? Non certo il Gazzettante Carlo Vitali. Quanto poi all’individuare le discipline in cui si dispiega l’ignoranza (in senso tecnico, absit injuria verbo) dei signori B&T, l’onere della prova spetterebbe al proponente. È quanto ho cercato di fare nelle precedenti puntate limitandomi ai primi due capitoli del Libro, quelli di maggior impatto metodologico. In questa, meno sistematica e più giocosa, cercherò di offrire ai lettori e a me stesso un sollievo dal logorio cerebrale.

A proposito di tale incomodo affermano B&T (p. 400): “V’è il serio dubbio che Haydn abbia potuto comporre musiche così complesse incompatibili col suo stato fisico e mentale [si parla dei Quartetti op. 76-77, delle ultime sei Messe e degli Oratorii; mica uno scherzo, ndr]. […] “Dal 1799 Haydn soffrì per la vecchiaia, ma soprattutto per l’arteriosclerosi.” Segue un quadro sintomatologico e poi la dotta conclusione: “Probabile che la cerebrosclerosi abbia contribuito a far dire a Giuseppe Carpani, avendolo conosciuto nel 1796, che Haydn, al di fuori della musica, era un ‘illustre idiota’”. La terminologia medica – sostiene la mia neurologa di fiducia – è alquanto zoppa, perché semmai si dovrebbe parlare di “vasculopatia cerebrale aterosclerotica” (sic). Ma transeat; a differenza di B&T, noi ci proclamiamo ignoranti di medicina e non azzardiamo diagnosi. Quanto sappiamo per certo è che B&T sono ignoranti di linguistica storica e che la loro citazione a pié di pagina dalle Haydine di Carpani è ripresa paro paro da quella di Giorgio Taboga in una sua ringhiosa stroncatura del 2004 al Beethoven di Piero Buscaroli, apparsa nel n. 8 della rivista “Episteme”: “la denuncia dell’incapacità didattica dell’ “illustre idiota” Haydn (come lo definì Giuseppe Carpani, Le Haydine, Padova, 1823, p. 252) è precisa ed impietosa”.

Bene: Taboga senior e i suoi illustri discepoli hanno semplicemente travisato la citazione ai loro fini revisionistici. Infatti Carpani, amico personale e collaboratore letterario di Haydn, così si esprime nel passo riscontrabile alle pp. 251-2 della seconda edizione accresciuta (Padova, Tip. Della Minerva, 1823), identico alla p. 247 della princeps (Milano, Buccinelli, 1812): “Diceva il gran Federico [II, re di Prussia, ndr], che non aveva mai potuto indovinare i progetti del Laudon. Sfido chi, sentite due battute di Haydn, possa predire le due che verranno. Nulla poi dico dell’intero piano dì un componimento nell’uno, d’una spedizione nell’altro. Era Haydn tutto musica, Laudon tutto guerra. Ignoranti nel rimanente dello scibile, si sarebbe potuto, senza nulla detrarre alla loro vera gloria, chiamarli, fuori dell’arte che professarono, due illustri idioti”.

Siamo di fronte a un parallelo in stile plutarcheo fra Haydn e il brillante feldmaresciallo austriaco Ernst Gideon von Laudon (1717-1790). Ricondotto al suo vero contesto, l’apparente insulto si sgonfia; anzi scompare del tutto quando si verifica l’accezione storica del lemma “idiota” nel Vocabolario della Crusca (4a ediz., 1729-1738): “Ignorante, Non letterato. Lat. idiota, illiteratus. Gr. idiotes”. Controprova offerta dallo stesso Carpani (2a ediz. cit., pp. 9-10, nota a): “Allorché io dettava queste lettere non era ancor us[ci]to al mondo musicale il maestro Rossini […]. Questo mostro d’ingegno […] trovò nuove delizie per l’orecchio, con sorpresa universale de’ dotti e degl’idioti”. Chiaro che qui l’idiozia non è una condizione mentale – vuoi congenita, vuoi indotta da patologie degenerative senili – bensì un’ignoranzasettoriale; musicale nel caso specifico. Le ipotesi riattributive dei nostri musicologi revisionisti (seriamente dubbioso… anzi probabile… praticamente certo) si basano su una testimonianza mutilata e male interpretata per ignoranza; se colposa o dolosa lasciamo valutare al lettore.

Altro esempio di onestà nello sfruttamento delle fonti (B&T, p. 22): “Il compositore di Rovereto Giacomo Gottiferedo (sic, recte: Gotifredo) Ferrari, estensore tirolese delle seguenti note, scrisse delle aberrazioni su Paisiello piegando la storia a fini di propaganda” (segue una lunga citazione). Le aberrazioni consisterebbero nel fatto che Paisiello avrebbe consigliato a un dilettante romano, tale Gasparino, di prendere lezione da Mozart “come un giovane d’un talento trascendente e straordinario”. Sulla stima reciproca fra Paisiello e Mozart, basata anche su contatti personali, è sufficiente consultare – oltre all’epistolario mozartiano e ai Dokumente di Otto Eric Deutsch (ad annos 1770, 1773, 1784, 1787) – la recente biografia di Dino Foresio, Il migrante dorato: Giovanni Paisiello (1740 – 1816), Bologna, Bongiovanni, 2016. Ma per B&T il peccato originale di Ferrari e la causa delle sue aberrazioni starebbe, more solito, nella sua nascita tirolese, così esplicitata nella nota 46, ivi: “Dal 1815 Rovereto divenne parte della contea austro-ungarica del Tirolo, e fu, fino alla 1918, capoluogo di uno dei sette circoli di quella provincia”. Primo sfondone: dal 1509, quando Massimiliano I la sottrasse a Venezia con la battaglia di Agnadello, Rovereto fece sempre parte del Tirolo italiano (così definito in opposizione a quello tedesco). Il titolo ufficiale era “Welsche Confinen der Grafschaft Tirol”, confini italiani della contea del Tirolo. Nel 1784, appena presentatosi come allievo a Giovanni Paisiello per imparare a comporre opera italiana, Ferrari ebbe con lui un gustoso dialogo di cui citiamo qui le prime battute:

– “Dunque, caro il mio Tirolese.

– Signore, io sono italiano.

– È vero, scusami, abbi pazienza. Dunque caro mio, tu sei deciso a divenir compositore ?

– Volesse il cielo !

Va buono, va buono: lascia fare a me”. (a p. 109 di Aneddoti piacevoli e interessanti, occorsi nella vita di Giacomo Gotifredo Ferrari da Roveredo, Londra, presso l’Autore, 1830; un libro che offre più di quanto prometta l’umile titolo).

In seguito, date le proprie molteplici occupazioni teatrali, Paisiello si fece affiancare nel compito dall’anziano Gaetano Latilla (1711-1788), famoso operista nonché zio e primo insegnante di Piccinni; ed ecco un altro dialoghetto partenopeo che certo, diranno B&T, Ferrari si sarà inventato a fini di propaganda austriacante:

 “Partì poi Attwood [Thomas Attwood, allievo di Latilla dal 1783 al 1785, poi di Mozart fino al 1787, ndr] per Vienna onde finire i suoi studij sotto W. A. Mozart. Arrivò il mio amico in quella metropoli al momento che quell’egregio compositore avea dato alla luce i suoi sei quartetti dedicati a Hayden [sic], e me ne inviò in regalo una copia a Napoli […]. Li provai con dilettanti e professori, ma non potevamo eseguire che i movimenti lenti, ed anche quelli malamente; ne misi in partitura degli squarci, tragli altri la fuga in G [sol maggiore], del primo quartetto [Kv 387]: la mostrai a Latilla, ed egli, dopo aver esaminata la prima parte, mi disse ch’era una gran bella cosa: scrutinando poscia nelle modulazioni e combinazioni ingegnose della seconda parte, e arrivato alla ripresa del soggetto, ripose la mia copia sulla tavola, esclamando, tutto stupefatto:

chisto è lo piezzo de museca più bello, e più spanto [grandioso, ndr], ch’aggio visto da che so vivo!

– Non credete che sia troppo ingenuo per una fuga reale?

Chesto è lo meglio; è no zucchero! Chesta è na fuga riale, non scolastica e nova” (Ferrari, op. cit., pp. 145-6).

Si aggiunga che Ferrari, abbandonata con rimpianto l’adorata Napoli nel 1787, continuò la sua carriera lungo un tipico itinerario da emigrato musicale italiano, come ad esempio Viotti: prima a Parigi e poi a Londra, dove morì nel 1842. Però – anatema su di lui! – si permise nelle sue memorie di “difendere la lingua tedesca, dolce ed espressiva” (B&T, loc. cit.). Subito dopo aver smascherato il suo tradimento etnico, i nostri patrioti si dedicano a riscrivere in chiave risorgimentale la storia del melodramma italiano da Cimarosa a Bellini e da Donizetti a Verdi, giacché: “Non per nulla le Società carbonare italiane […] nacquero presso i teatri e i Conservatori di musica. Era là che si cercava eroicamente di salvaguardare la cultura italiana dai soprusi degli Asburgo e dei Borbone”. Confesso la mia colpa: di questa materia mi sono occupato un poco, non senza genuina passione nazionale, nel volume “O mia Patria”: Storia musicale del Risorgimento, tra inni, eroi e melodrammi di Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali, con una prefazione di Philip Gossett, Milano, Dalai, 2012. Un po’ per pigrizia e un po’ per mancanza di spazio, qui mi contenterò di affermare che la ricostruzione di B&T è pesantemente viziata dagossip biografico senza fondamento, goffe semplificazioni uso fumetto per l’infanzia e ridicolaggini assortite. Se i due se ne risentono, si comprino il volume e ne scrivano una recensione sulle loro milletré pagine web. Bastino qui due campioni: “Giovanni Paisiello […], per non finire ammazzato, fu costretto a scrivere l’inno al Re che poi diventerà inno nazionale del Regno delle Due Sicilie e terminò i suoi giorni in disgrazia perché inviso agli austriaci. Gioachino Rossini […] smise ‘inspiegabilmente’ di comporre opere dopo un Guglielmo Tell politico e rivoluzionario.”

Circa Paisiello, genio musicale di prim’ordine, si dovrebbe ricordare che il suo “spesso mutar di bandiera” (Francesco Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatorii, Napoli, Morano, 1880-83: vol. II p. 276) lo rende poco credibile nel ruolo di martire del pre-Risorgimento. La sua morte non fu quella di un dissidente, bensì di un cortigiano addolorato da un pubblico sgarbo del suo sovrano: quel Ferdinando I delle Due Sicilie il quale gli aveva commissionato il famoso inno in tempi non sospetti, quando era ancora Ferdinando IV di Napoli. Cioè nel 1787, allorché Paisiello sommava le cariche di “maestro della Real camera” e “compositore della musica de’ drammi” con annuo appannaggio di 1.440 ducati. Se davvero fu “costretto” a scrivere quelle quattro note, non lo fece col coltello alla gola; semmai con catene d’oro legate al piede.

Rossini: il suo precoce silenzio è stato spiegato in molti modi; ma questo “inspiegabilmente” di B&T è un’affascinante insinuazione da giallisti consumati. Temeva forse che i servizi segreti austriaci lo facessero assassinare a Parigi in rappresaglia di aver musicato nel 1829 (in francese) un’opera sull’eroe nazionale svizzero? Manco per idea. Lo stesso Gran Cancelliere Metternich era un rossiniano accanito e amico personale del Cigno di Pesaro. Un’infatuazione che in lui durò per quattro decenni, ben oltre la perdita del potere dopo la rivoluzione del ‘48, esprimendosi in accorate suppliche epistolari onde spingerlo a una rentrée; omettiamo per brevità la torrentizia bibliografia ma siamo pronti a fornirla su richiesta. Ed ecco i precedenti: “Che bell’episodio della mia vita l’aver stabilito qui [a Vienna, ndr] l’opera italiana; alla fine ci sono riuscito, conquistando una vera e grande vittoria”, scrisse nel suo diario l’8 aprile 1822. Singolare inno di trionfo per un politico che dirigeva a bacchetta il concerto delle nazioni… Proprio quel Metternich che definiva l’Italia “un’espressione geografica”, eppure amava il Bel Paese al punto da volerne il più possibile per il suo imperatore, musica inclusa.

Già in visita di Stato a Napoli nella primavera del 1819, si deliziava ad ascoltare ogni sera il tenore Giovanni David, stella del San Carlo. Il teatro era chiuso per la novena di San Gennaro, ma per concessione di re Ferdinando a lui fu permesso di assistere alle prove di alcune opere rossiniane; pare addirittura otto, secondo quanto scrisse alla sua storica amante, la contessa Dorothea von Lieven. Più o meno alla stessa epoca si era espresso ben altrimenti a proposito dei “nostri disgraziati compositori, soprattutto Beethoven e la sua esecrabile scuola”. “E-se-cra-bi-le”: prendere nota, signori revisionisti! Difatti alla sua lauta tavola viennese sedettero ospiti Rossini e Donizetti (dal 1842 Kammerkapellmeister e Hofkomponist dei biechi Asburgo), più schiere di virtuosi italiani che varcavano il Brennero inseguendo la musica dei fiorini, mentre a Beethoven rifiutò di concedere una pensione perché certo l’avrebbe sperperata. È lo stesso impietosito Rossini a raccontarlo. Per David, riascoltato a Vienna nel 1822, ebbe un vero debole. Dopo averne analizzato con proprietà di termini il colore, l’estensione e la tecnica, lo statista-vociologo conclude: “non lascia nulla a desiderare; e ci sono poche cose al mondo su cui posso azzardarmi a pronunciare un tale giudizio”.

Se poi il canto esce da una bella gola femminile, è colpo di fulmine. Nel 1818-19 la celebre Angelica Catalani si esibisce in concerto al Theater an der Wien. Metternich se n’era invaghito a Firenze nel 1817, quando la trentasettenne soprano aveva già abbandonato le scene ma ancora sapeva stregare le platee con funamboliche variazioni di bravura che lei stessa inventava e dava da strumentare a compositori di fiducia. Il solito roveretano Ferrari, che in tale qualità la servì a Londra verso il 1808, la dice “dotata d’un fisico leggiadro e maestoso, vita snella, fisionomia seducente”. Non occorreva altro per smuovere il sensibile principe, di cui possediamo un’altra confidenza alla contessa von Lieven: “Nulla opera in me con tanta forza come la musica. Credo che questa, dopo l’amore e specie in unione con esso, migliori il mondo”. Al congresso di Verona, convocato nell’autunno 1822 per pacificare l’Europa con le baionette della Santa Alleanza, si unirono a far festa tutti assieme: Metternich, Dorothea, Angelica e Rossini, incaricato di musicare le quattro cantate d’occasione.

Con questo capolavoro d’ignoranza storico-politica – che in B&T si sposa a quella geografica, come quando etichettano Dresda “maggiore centro d’italianità della Germania meridionale” (p. 23); ma ce l’hanno in casa un atlante? – passiamo il testimone a chi avesse ancora voglia di analizzare il Libro nei suoi residui 29 capitoli. Per qualche tempo vorremmo occuparci di cose più serie; poi si vedrà, perché il materiale nel cassetto è tantissimo e già si annuncia l’uscita del Libro II. Intanto salutiamo con gratitudine i nostri pazienti e meno pazienti lettori su questo sito ospitale; ai due Accademici della Bufala dirigiamo un affettuoso congedo animalista che – in quanto “nuovi Sgarbi della musicologia”, titolo conferito sul campo dal loro fan-club – dovrebbero apprezzare: “Capre! Capre! Capre!”