di Carlo Vitali e Girello Alessibubalo
PREMESSA: Essere disceso da magnanimi lombi nulla dovrebbe importare nella valutazione del genio musicale. Porpora era figlio di un libraio, Gluck di una guardia forestale, Händel di un cerusico, Verdi di un oste, Lully di un mugnaio, e via elencando. Allora perché i biografi-agiografi di Andrea Luchesi si affannano tanto a costruirgli indimostrabili quarti di nobiltà? Snobismo fuori tempo, si direbbe.
Giorgio Taboga (2004)
“Il prænobilis Dominus Andrea Luchesi, discendente dalle famiglie nobili di Lucca trasferitesi nella Serenissima nel XIV secolo […]”
COMMENTO: Come risulta dalle ricerche archivistiche dello stesso autore, il padre Pietro Luchese gestiva un commercio di “biade e farinato” con un capitale di ducati 80. Non vi è traccia di gran nobiltà; e soprattutto questa discendenza è provata da uno straccio di albero genealogico lungo la bellezza di tre secoli?
Agostino Taboga (2018)
“la discendenza dai nobili lucchesi che all’inizio del XIV secolo si sono trasferiti a Venezia, consentono a Luchesi la frequentazione dell’ambiente nobiliare veneziano, dove opera più come dilettante che come professionista”.
COMMENTO: Rilancio della bufala con nuove fioriture arbitrarie. I Falier vantavano una genealogia documentata dal X secolo, i Giustinian millantavano la propria discendenza dal basileus bizantino Giustiniano II, i Marcello addirittura dall’omonima gens romana. E con questi fumi per la testa avrebbero i patrizi veneziani, che rivendicavano il trattamento di principi del sangue perché in teoria tutti eleggibili alla carica di Doge, trattato alla pari il figlio di un mercante di granaglie immigrato dalla provincia? “Nobil Homo“ in italiano (“Nobilis Vir“ in latino) era il loro unico titolo legale, uguale per tutti. Invece Andreino della Motta: “prænobilis“ col superlativo = nobilissimo. E chi glielo attribuisce? Un atto di matrimonio.
Agostino Taboga (2018)
“Nel febbraio 1775 il Prænobilis Dominus Andrea Luchese de Motta sposa la Prænobilis Domina Josepha Anthonetta d’Anthoin […]”
Siamo andati a controllare l’atto, che Taboga junior trascrive infarcendolo di refusi (non è un gran paleografo, ma questo si sapeva):
“Prævia dispensatione super tribus procalamationibus [sic] copulati sunt Praenobilis Dominus Andrea Luca Luchese de Motta et Prænobilis Dominica Josepha D’Anthine [sic] coram testibus ad hunc specialiter requisitis Prænobili ac strenuo Domino Ferdinando D’Anthoin Locumtenente et D: Fridericus Muller aliissque [sic] paresentibus [sic].
COMMENTO:
Qui sono tutti “Domini” e/o “Prænobiles”; il cognato e testimone Ferdinand d’Anthoine, essendo un tenente, è pure “strenuus”, cioè valoroso. Sembra di stare nella farsa di Scarpetta Miseria e nobiltà. Non sarà per caso che in questa sorta di documenti una croce di cavaliere e un mezzo sigaro toscano non si negavano a nessuno? Pare che si dicesse così ai tempi di Giolitti…
CONTROPROVA:
4 agosto 1782
“der wohledle Herr Wolfgang Adam [sic] Mozart [si sposa] mit der wohledlen J. Konstanzia Weber” (dai registri della cattedrale di santo Stefano)
Ora “wohledler”, anche in termini etimologici, appare come il perfetto equivalente tedesco di “prænobilis” = nobile al superlativo. A cosa poteva corrispondere nel natìo Veneto di Luchesi? Le formule d’indirizzo avevano naturalmente una grande importanza nelle società di ancien régime. L’uso veneziano, così come si rispecchia nelle commedie di Goldoni, prevede in linea di massima un sistema a tre termini: “messere” per i plebei come il caffettiere Ridolfo, “illustrissimo” per le persone di civile condizione (oggi diremmo di classe media), “eccellenza” per i nobili e i titolati.
Ecco finalmente spiegato l’arcano: “prænobilis” e “wohledler” sono giusto traduzioni di “illustrissimo”. Per la bassa nobiltà tedesca si sarebbe usato “wohlgeboren”; per i titolati inferiori al grado di margravio si andava da “hochgeboren” fino a “edelhochwohlgeboren” a seconda del rango (cfr. Karl Friedrich Dumoulin, Die Adelsbezeichnung im deutschen und ausländischen Recht, 1997). Superfluo rammemorare ai sodali trevigiani di Bianchini e Trombetta che Wolfgang era pronipote di un muratore in senso non massonico…, nipote di un rilegatore di libri e figlio di un cameriere-violinista poi promosso a Vicekapellmeister, e che Franz Fridolin Weber, il padre della sposa, soltanto un musicante e copista in bolletta. Lo testimonia il futuro genero in varie lettere spedite al padre da Mannheim nel 1778.
La gherminella agiografica è allora evidente: regalare a Luchesi un’aureola di “nobile dilettante” come i due fratelli Marcello o l’Albinoni della prima fase. L’illustrissimo signor dottor Taboga dovrebbe sapere che Nobiles Viri erano i patrizi veneti registrati nel Libro d’Oro, e che i loro eventuali titoli feudali valevano solo in Terraferma. Mi sembra dimostrato che, a prescindere dall’etimologia, il “prænobilis” del documento di Bonn abbia lo stessissimo valore semantico del “wohledler”; di quello viennese: in latino oppure in tedesco si tratta sempre di un complimento elargito d’ufficio a chi si presentava in parrocchia con lo spadino al fianco e pagava senza fiatare i diritti di segreteria. Un po’ come il parcheggiatore che chiama “dottò” l’automobilista di passaggio dal quale riscuote la mancia.
La morale lasciamola trarre all’abate Giuseppe Parini (Dialogo sopra la nobiltà, 1757):
io per me, prima d’ogni altra cosa, desidererei d’esser uomo dabbene, in secondo luogo d’esser uomo sano, dipoi d’esser uomo d’ingegno, quindi d’esser uomo ricco, e finalmente, quando non mi restasse più nulla a desiderare, e mi fosse pur forza di desiderare alcuna cosa, potrebbe darsi che per istanchezza io mi gettassi a desiderar d’esser uomo nobile, in quel senso che questa voce è accettata presso la moltitudine
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