di Carlo Vitali

Riprodotto per gentile concessione di Le Salon Musical

È quasi impossibile non ammirare Fernando de Luca. Doppiata la boa esistenziale delle sessanta primavere, il dinamico “Arcade et Musico Pastore Romano” (così autodefinito, maiuscole e tutto, nella blogosfera) continua a perpetuare di se medesimo l’icona dell’avventuriero piacione tutto genio e sregolatezza. Nei suoi concerti si traveste con parrucca, tricorno, e sfarzosi costumi gallonati a guisa di un redivivo Chevalier de Seingalt, fa illuminare la sala coi doppieri, si esibisce in pose plastiche a favore di obiettivo. Poco male se in questo arnese si limitasse a suonare e a promenarsi in video per le calli veneziane affollate di turisti: alla fiera della comunicazione postmoderna c’è posto per tutti, sicché il dandysmo retrospettivo potrebbe legittimamente passare da marchio commerciale più o meno spendibile.

Il guaio è che vuole anche esternare il suo pensiero per iscritto, e nel faticoso processo la parrucca del gentiluomo gli scivola sulle ventitré, rivelando nei messaggi indirizzati al colto pubblico e all’inclita guarnigione (inclusi i colleghi e i critici) una singolare dissociazione psichica. “Due anime albergano — ahimè — nel [suo] petto”, si potrebbe dire rubando la diagnosi al dottor Faust; o meglio, trattandosi di cembali, due manuali malamente accordati: quello aulico dei lazzi autoelogiativi conditi di pseudoarcaismi stile papiro goliardico e quello picaresco delle contumelie da suburra. Dall’altra tastiera del Cavaliere cola un fiotto inarrestabile di storpiature onomastiche, epiteti stercorari, minacce di adire le vie di fatto, inviti canaglieschi in chiave (come oggi si suol dire) “omofobica”, ed altri consimili tropi da coniglio mannaro che insulta, cancella, blandisce e ritorna ad insultare a seconda di come tira il vento del feed-back.

Il tutto veicolato in prose di dubbia qualità logico-sintattica e in versi da colascione senza legge né metro, poco compatibili con la qualifica di Pastore Arcade. Non si vuol qui fare del moralismo; basti ricordare che  nell’Accademia d’Arcadia — quella genuina fondata nel 1690 e tuttora vivente in Roma come Ente del Terzo Settore — si coltivava anche il genere basso-creaturale detto “bernesco”, e che alla Musa Sterquilina s’ispirò l’autore della canzonetta L’Ortica dubitativamente attribuita nientemeno che a Metastasio, in Arcadia “Artino Corasio”. Solo che l’abate romano (o chi per lui) sapeva tornire il verso italiano per retta ragione metrica e con raffinata ironia, mentre il pastorello trasteverino “Falerno Ducande” ne è ben lungi; quanto e più del maestro Beatrice Venezi dalla direzione orchestrale o del comandante Francesco Schettino dall’arte del nocchiero.

Dunque titolo usurpato e tuttavia illuminante, poiché quel suo alias enologico — che nulla ha di arcadico essendo un semplice anagramma — rimanda alla varia tipologia del Falerno secondo Plinio il Vecchio: “Tria eius genera: austerum, dulce, tenue” [1]. Né austero né dolce l’eloquio del nostro cembalista en travesti: lo diremmo semmai “tenue”, ossia vaporoso quanto il suo bagaglio di cultura generale. Dal che possiamo comprendere quale miscela esplosiva rappresentino nell’era dei social media il trollaggio autopromozionale, il piagnisteo vittimista, la capacità mimetica e memetica, l’analfabetismo di ritorno quando non di sola andata.

Se Falerno Ducande non sa scrivere sonetti né madrigali, cavalca però lancia in resta nelle discussioni wikipediane a sostegno del suo Doppelgänger. I redattori gli sopprimono per cinque volte la voce “Fernando de Luca” in quanto scarsamente enciclopedica? E lui, per bocca di Falerno Ducande, pretende che si faccia altrettanto con tre colleghi, rei a suo dire di abusi autopromozionali ancor peggiori: Rinaldo Alessandrini, Andrea Marcon e Matteo Messori [2]. Muoia Falerno con tutti i Filistei! Per ora la sua delazione sembra non aver pagato nella versione italiana, mentre qualche risarcimento gli è offerto da due abbozzi (stubs) in lingua inglese e araba; il secondo nulla più di una schedina anagrafica. Rovesciando il detto evangelico: non si può essere puri come serpenti e astuti come colombe a corrente alternata, altrimenti la credibilità va a farsi benedire. 

Non facendo noi professione di massmediologia, affidiamo volentieri codesto influencer de noantri alla devozione del suo fan club, di recente mobilitato in un’operazione di crowdfunding onde consentirgli di realizzare due “prestigiose” registrazioni fisiche, rispettivamente la terza e la quarta della sua scarna discografia da solista. Tutti sappiamo come in un mercato fattosi ormai asfittico l’autofinanziamento sia condizione necessaria e purtroppo sufficiente per fregiarsi dell’etichetta olandese Brilliant Classics: la sua formula “confezione spartana + distribuzione capillare a basso prezzo” ha innegabili vantaggi ma non è automatica garanzia di qualità. Bene: in attesa di degustare i 7 nuovissimi CD Brilliant dedicati al probo cembalo-organista orleanese Christophe Moyreau (1700-1774), eccoci a parlare un poco dei 14 che da quasi un anno passano e ripassano sul piatto del nostro troppo affollato stereo: oltre 600 minuti del quasi coevo e quasi omonimo Christoph Graupner (1683-1760) sono già stati digeriti; ne mancherebbero circa 300 per esaurire la corvée [3].

Beninteso una quisquilia rispetto ai sette anni (2012-19) che il professor Falerno dichiara di aver investito nella registrazione, e anche dei sei (2002-2008) impiegati dalla franco-canadese Geneviève Soly e dall’etichetta Analekta per licenziare i sette album consacrati allo stesso repertorio [4]. Un precedente che scompare nel booklet firmato Francesca Scotti, non incluso nel cofanetto ma scaricabile dal sito di Brilliant. Dalla corretta e sintetica introduzione (non si poteva far di più nello spazio avaramente concesso dall’editore) non manca infatti la mezza bugia diplomatica in omaggio alle ragioni del marketing: “Christoph Graupner’s suites, or partitas for keyboard […] have long been neglected by musicology and by the performers themselves”.

How long, gentile dottoressa? Nel caso di Graupner il mulino della musicologia avrà girato adagio perché aveva molto altro da macinare: meno di 60 partite per tastiera non rappresentano certo un picco nella produzione del fecondo Kapellmeister sassone contro circa 2.000 numeri di catalogo (fra cui 242 lavori orchestrali, 1.418 cantate da chiesa, 8 opere teatrali, eccetera). E del resto i “performers themselves” non avevano bisogno di attendere l’imbeccata, avendo già a disposizione per il repertorio in oggetto non meno di tre collezioni a stampa curate dall’Autore in persona nel 1718, 1722 e 1733; per non parlare di due riedizioni moderne (1928 e 1935) perfettamente leggibili anche da chi non si dilettasse di paleografia. A deplorare l’oblio caduto su Graupner tastierista arrivò primo nel 1953 un Herr Professor tedesco, membro di quella vil razza dannata che certi amici-di-tastiera del Sor Falerno [5] bollano in blocco di nazionalsocialismo. Precisamente Lothar Hoffmann-Erbrecht, allievo del famigerato Heinrich Besseler, con un poderoso saggio storico-critico corredato di esempi in notazione [6]. Passerà un altro mezzo secolo abbondante prima che la sullodata pioniera Geneviève Soly accetti la sfida, con risultati a nostro parere eccellenti sotto il profilo artistico. Un poco più “completista” e senza paragone meno costosa la vendemmia del nostro Ducande, cui peraltro si può applicare il caveat di Plinio ad uso di coloro che nel Falerno antepongono la quantità alla qualità [7].

Non avendo completato l’ascolto dei 909 minuti, e sommessamente dubitando che valga la pena di farlo, ci asterremo dal tentarne una recensione professionale; anzi incoraggiamo i lettori ad acquistarli onde farsene un’idea indipendente. Ci si concedano solo alcune di quelle valutazioni impressionistiche che in tempi di relativismo e di “uno vale uno” non si possono lecitamente negare a chicchessia.

Innanzitutto il Graupner cembalista è compositore di non agevole né univoca decifrazione, avendo votato la propria scrittura ad una strategia dell’aureo mezzo fra il virtuosismo del professionista e l’edonismo del dilettante di qualità. Parole sue: “affinché il più debole come il più forte possa trovare qualcosa per il suo plaisir [8]. Civile approccio illuministico e galante a una diversità che non sembra abitare nelle corde del maestro Don Fernando. Ben poco di grazioso o di rilassato nel suo tocco, ma uniforme pesantezza percussiva nella mano sinistra, nessun respiro nel fraseggio, nessuna traccia di articolazione nei cantabili, scarso il contrasto dinamico nei passaggi di registro. Solo note a chilogrammi come se, una volta innestati il massimo di spinta e il pilota automatico, il volo procedesse a lunghi tratti per forza d’inerzia, appena increspato da turbolenze quali acciaccature, trilli e fioriture a mo’ di scossa elettrica. Un’interpretazione tecnomorfa, sterile, secca e puntuta quale potrebbe sortire da una tastiera digitale ben campionata, e non da due preziose copie moderne di strumenti originali: un Blanchet francese del 1754 e un tedesco Vater del 1738.

E qui le note si fanno davvero dolenti. Come spiegare le tante imprecisioni d’intonazione se non con un’accordatura trascurata o, ancor peggio, con l’adozione di un qualche temperamento mesotonico di rito tardo-barocco; opzione di cui in altra occasione l’interprete si è dichiarato fautore rampognando ex cathedra un suo critico: “Non sa manco cosa sia un comma pitagorico da uno sintonico e di qual rapporto di diapente deve avere una quinta del temperamento di Joseffo Zarlino da Chioggia a 2/7 di comma sintonico” (oh che bella sintassi!). [9] Troppo facile opporre che siffatte teorizzazioni ad hominem non hanno pregio alcuno in riferimento alla pratica vigente nella clavicembalistica tedesca al tempo di Graupner, ormai egemonizzata dai “buoni temperamenti” di Werckmeister, dove l’approssimazione di tutte le quinte si restringe fino a 1/12 di comma. Se egli pensa il contrario si degni di provarlo con fonti verificabili e non con ciance simil-erudite.

Ci tolga un dubbio, se si degna di risponderci, egregio professore. Lei, che certo accorda di persona i suoi strumenti come deve fare ogni cembalista di qualità e docente di conservatorio, patirebbe per avventura di qualche disturbo dell’orecchio? Le basta un diapason a forchetta o fa uso di qualche sussidio hi-tech? Oppure, caso meno improbabile, è un partigiano duro e puro della quinta del lupo? Perché solo così potremmo spiegarci come nel quinto movimento della Partita in Re maggiore GWV 701 una presumibile imitazione dei corni da caccia si trasformi sotto le Sue dita [10] in un’orgia di acide dissonanze tale da intimidire perfino il vecchio Biber o il nostro contemporaneo Eminem. Dall’esame della partitura autografa databile ca. 1730-35 [11] non pare che l’intenzione di Graupner, per quanto scherzosa, fosse davvero così avanguardistica. Ma sicuramente Lei ne sa di più di noi poveri musicologi da tavolino; ci ammaestri e La ringrazieremo di vero cuore.

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NOTE

[1] Naturalis Historia, XIV/63.

[2] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Discussioni_utente:Kaspo, Archivio n. 7 §§ 97-100 (link consultato il 20 giugno 2022).

[3] Graupner: Complete Harpsichord Music, 14 CD in cofanetto cartonato, Brilliant Classics 96131, prezzo € 36,80 su Amazon prime. Contiene: Partiten GWV 101-108, 121, 126, 127, 129-133, 140-150, 701, 702, 804, 805, 824, 829, 835, 849, 851, Suiten GWV 109-120 “Monatliche Clavir Früchte”, Präludien & Fugen GWV 826 & 855, Präludium GWV 128, Aria GWV 822.

[4] Graupner: Partitas For Harpsichord, voll. 1-7, Analekta AN 23109, 23164, 23181, 29116, 29118, 29119, 29120; abbondantemente campionati su YouTube.

[5] Capeggiati, manco a dirlo, da un altro pastorello abusivo che si cela dietro l’anagramma “Chibia Luncani”.

[6] Johann Christoph Graupner als Klavierkomponist in: “Archiv für Musikwissenschaft”, X/2 (1953), pp. 140-152.

[7] “Exolescit haec quoque copiae potius quam bonitati studentium” (Op. cit., XIV/62).

[8] “[…] dahero sie [i miei pezzi] auch so eingerichtet, das so wohl der schwächere als stärkere etwas zu seinem plaisir finden möge” (Graupner, prefazione allePartien auf das Clavier […] Erster Theil, Darmstadt, In Verlegung des Authoris, 1718).  

[9] Cfr. https://www.accademiadellabufala.it/2020/04/11/il-dito-di-zalzal-ovvero-contraddizioni-in-seno-al-popolo-della-bufala-di-carlo-vitali-con-riccardo-mannefei-michele-girardi-paolo-congia-mario-tedeschi-turco/ (link consultato il 20 giugno 2022).

[10] Graupner: Complete Harpsichord Music, cit.,CD 3, traccia 11.

[11] D-Ds, Mus. Ms. 481/3, pp. 31-35, movimento senza indicazione di titolo.