Händel ha rubato a Vivaldi. Ultima scoperta dell’appuntato Luca Bianchini

di Carlo Vitali

È palese che quel patetico esternatore del Bianchini, con le sue categorie di “furto”, “plagio” e simili, più degne di un questurino che di uno storico della musica, non ha idea di pratiche come il pasticcio e l’aria da baule. Non a suo beneficio – perché “a lavar la testa all’asino si perde il ranno e il sapone” (proverbio toscano) – ma per i suoi eventuali groupies in buona fede, rimandiamo ad un nostro piccolo saggio apparso nella rivista “La Fenice prima dell’opera” 6/2007, pp. 63-78, e in particolare al  capitolo 4: “La nobile arte del pasticcio operistico, in teoria e in pratica”. Dove si vede fra le altre cose che, per il suo Bajazet/Il Tamerlano del 1735 al Teatro Filarmonico di Verona, Vivaldi saccheggiò in primo luogo se stesso, e poi Giacomelli, Hasse e Riccardo Broschi, il fratello cialtrone di Farinelli.

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Nell’identica doppia veste di compositore e impresario, Händel produsse il pasticcio Catone su libretto di Metastasio (prima rappresentazione: Londra, Teatro di Haymarket, 4 novembre 1732) a partire dall’omonima partitura di Leonardo Leo (prima: Venezia, Teatro di S. Giovanni Crisostomo, 26 dicembre 1728). La copia che Händel si trovò in mano a Londra era quindi già notevolmente “impasticciata”: 9 arie su 26 erano farina del sacco di Broschi e Leonardo Vinci, più un’aria dello stesso Händel “rubatagli” nel 1720 dal basso Giuseppe Maria Boschi. In corso d’opera si aggiunsero altre arie di Hasse, Porpora, Vinci e Vivaldi, tutte o quasi uscite dal baule dei cantanti italiani scritturati per la compagnia dell’Haymarket.

Non sempre, all’epoca di cui parliamo, il pasticcio è pratica bassa e di ripiego: a volte s’associa anzi a produzioni di prestigio e d’alto costo, come il Muzio Scevola allestito a Londra nel 1721 per mettere a diretto confronto i tre capiscuola del momento (Händel, Bononcini e Ariosti) o il Faramondo bolognese del 1710, rimodernamento di una partitura ormai decennale di Carlo Francesco Pollarolo mediante innesti di Gasparini, Perti, Händel e con la partecipazione del grande soprano Antonio Bernacchi. Di fatto i virtuosi, che consideravano proprietà privata le arie già cantate in precedenza, avevano in mano il vero potere decisionale (ma il Bianchini l’ha mai letto il Teatro alla Moda di Benedetto Marcello?). E ci dica il nostro gendarme col pallino della pulizia etnica: se Leo o chi per lui aveva “rubato” a Händel e Hasse, se Vivaldi aveva fatto altrettanto con Hasse, Broschi e Giacomelli, e se Händel “rubava” un po’ a tutti ma soprattutto agl’italiani, che cosa ne vuol concludere: che “rubare” ai connazionali non è reato, ma agli stranieri sì?

Rinfoderi le manette e vada magari a (ri)leggersi quanto – trattando di Monteverdi, Cavalli e  altri autori della prima opera veneziana – scriveva già nel 1982 Lorenzo Bianconi circa la “rilevanza davvero modesta delle questioni attributive nel campo del teatro d’opera di quest’epoca, nel contesto d’una forma di produzione che è per natura sua collettiva”. Ma Bianconi è un musicologo italiano di origine svizzera. Non sarà per caso un neo-nazista anche lui?

Risposta di Carlo Ipata (Auser Musici):

La recensione è ripresa da La Repubblica e Bianchini si limita a contribuire alla pessima abitudine ormai diffusa di diffondere materiale con copyright (l’estratto dal nostro CD [ndr. Catone]). Ne prendiamo atto.

Quanto ad Händel penso che nessun mortale possa permettersi di offendere l’intelligenza di questo sommo musicista giudicando i suoi “prestiti” senza inserirli nella logica del contesto nel quale li realizzò.